Chi sarà mai stato, e dove sarà vissuto, quella donna o quell’uomo che ha scoperto che un impasto di farina di grano, lasciato a sé qualche ora, rigonfiava e emanava un profumo caratteristico, e che poteva essere cotto e trasformato in un ottimo alimento?

Questo nostro antichissimo progenitore ha impartito una svolta all’umanità, sia perché ha messo a disposizione un alimento eccellente, il pane, sia perché ha messo le mani in un delicato problema chimico, fisico e microbiologico.
Da quello che si sa la scoperta del pane risale a oltre 10.000 anni fa e di certo il pane era noto alle antiche civiltà; nel libro ebraico della Genesi si racconta che quando dio volle punire la disubbidienza di Adamo lo condannò a ottenere col sudore della fronte «il pane» (lchem, per inciso gli stessi caratteri della parola violenza, guerra).
Gli antichi ebrei evidentemente usavano il pane come il nostro perché, quando il popolo ebraico scappò via dall’Egitto, 3200 anni fa, i loro capi decisero che non c’era tempo per preparare pane fermentato e fu previsto l’uso di pane non fermentato, «azzimo», mitzah in ebraico.

Gesù, nel racconto che risale a 2000 anni fa, divide con i suoi amici il pane, nell’ultima cena. Per i cristiani nel pane simbolicamente è presente il corpo di Gesù Cristo. Alcune confessioni cristiane celebrano l’eucaristia con il pane, mentre nella maggior parte delle comunità cattoliche si usa una ostia di farina di grano.
Nella preghiera Padre Nostro il cristiano chiede a Dio «Dacci oggi il nostro pane quotidiano».
Il pane, proprio in quanto alimento essenziale, spesso quasi unico per le classi povere, è spesso stato al centro di contestazioni fra cittadini e avidi fornai, come ricorda Manzoni nel XII capitolo dei Promessi sposi in cui è descritto l’assalto dei milanesi al «forno delle grucce» (el prestin di scansc). Il pane per secoli è stato sottoposto a pesanti tasse, dal momento che sia il pane sia il sale, in quanto beni essenziali per tutti i cittadini, erano una sicura fonte di soldi per i governi. Tasse che pesavano di più sulle classi povere, naturalmente, e la cui esosità è stata fonte di ribellioni e rivolte sociali; quella di Milano del maggio 1898 sfociò nella dura sanguinosa repressione comandata dal generale sabaudo Bava Beccaris.

Il pane si prepara miscelando 1 chilo di farina, circa 600 grammi di acqua, alcuni grammi di sale e alcune diecine di grammi di lievito.

Il pane che conosciamo riesce soltanto con la farina di grano tenero macinata finemente: la farina contiene circa il 10% di proteine e il resto è quasi esclusivamente amido. Fra i miliardi di proteine esistenti in natura, quelle della farina sono praticamente le uniche che, miscelate con acqua, formano insieme all’amido una massa elastica, omogenea, instabile. La presenza dei microrganismi del lievito dà l’avvio ad una serie di reazioni chimiche: l’amido si trasforma in zuccheri; gli zuccheri si trasformano in alcol etilico e nel gas anidride carbonica (è la fermentazione); l’anidride carbonica cerca di uscire dalla massa e la fa rigonfiare.

Finita la lievitazione (servono alcune ore) la pasta lievitata viene messa in forno a 230 – 250 gradi Celsius, per un periodo variabile fra un quarto d’ora e tre quarti d’ora; l’anidride carbonica esce dalla massa; sulla parte esterna dell’impasto si forma la crosta, un materiale fragile e di colore bruno; la parte interna (mollica) resta elastica.

Nel mondo si producono circa 750 milioni di tonnellate all’anno di frumento; di questi circa il 90 % è costituito da frumento tenero, dalla cui farina viene prodotto il pane, in ragione di circa 200 milioni di tonnellate all’anno, oltre 2 milioni solo in Italia in cui si producono anche altri 2 milioni di tonnellate all’anno di prodotti da forno come biscotti, pizze, dolci, eccetera.

Il pane viene prodotto e commerciato con qualità e gusti diversissimi. Nel passato e nei periodi di guerra il pane era fatto non solo con la farina bianca di grano tenere ma con la farina miscelata con la crusca; costava meno ed era il pane del proletariato, mentre le classi più abbienti mangiavano «pane bianco». Adesso alcuni il pane integrale (fatto con farina e crusca insieme) lo cercano per motivi nutrizionistici.

Il pane in Italia è prodotto per la maggior parte da circa 25.000 imprese artigianali; che mediamente sfornano cento chili di pane al giorno ciascuna, con un fatturato totale di 7 miliardi di euro all’anno. Il settore dà lavoro a 400.000 mila addetti che passano la notte a impastare la farina, a fare la guardia lievitazione, a cuocere e sfornare il pane cotto al punto giusto. Quello del panettiere non è un mestiere, e neanche una professione, ma una vera arte, l’«arte bianca», lavoro delicato e e faticoso che trova sempre meno appassionati.

Addirittura, per le difficoltà di reperire mano d’opera, ormai ci sono imprese che preparano gli impasti da pane su scala industriale, li surgelano, li spediscono in tutta Italia e al negozio non resta che cuocerli.

La produzione e il commercio del pane sono regolati dalla legge 580 del 1967 che ha subìto varie modifiche per adeguarla alle norme comunitarie. Per legge la quantità massima di acqua consentita nel pane va dal 29 % per il pane di piccola dimensione al 40 % per quello che pesa oltre mille grammi; inoltre possono essere messi in commercio «pani speciali» con innumerevoli variazioni, aggiunte, additivi, integratori, a cominciare dall’olio o dallo strutto, e poi da polvere di latte, eccetera.

La formazione dell’impasto da pane è reso possibile dal fatto che nella farina di frumento sono presenti, quasi uniche rispetto ad altri cereali, due proteine, la gliadina, costituita dall’unione di circa 100-200 amminoacidi (principale responsabile della celiachia), e la glutenina, costituita dalla combinazione di circa 2.000-20.000 amminoacidi uniti fra loro.

Gliadina e glutenina nell’impasto della farina con acqua reagiscono fra loro con la formazione di un complesso – chiamato glutine – elastico, che impartisce all’impasto le caratteristiche che conosciamo.

Le cose sono molto più complicate; purtroppo le proteine dell’unica farina adatta per il pane sono povere di lisina, uno degli amminoacidi essenziali che devono essere apportati con la dieta, e contengono delle componenti a cui sono intolleranti le persone che soffrono di celiachia, circa 600.000 in Italia, che quindi non possono mangiare pane e neanche pasta alimentare, fatta con semola di frumento duro che contiene simili proteine.
Per queste persone viene preparato pane con impasti con farine di riso, soia e altre, con eventuale addizione di latte o uova, che consentono di produrre alimenti «senza glutine». Quando si trova in commercio qualche alimento con questa precisazione si ricordi che l’intolleranza insorge soltanto se è presente del glutine in quantità superiore a 20 milligrammi al chilo, quelli contenuti in 0,2 grammi di farina per chilo di alimento. Ci sono poi persone che sono allergiche alla glutenina.

La «lievitazione», l’aumento di volume dell’impasto di acqua, farina e sale è resa possibile da microrganismi: per millenni il pane è stato fatto tenendo da parte una parte dell’impasto fermentato (la «pasta madre») da addizionare all’impasto del giorno dopo, assicurando in questo modo la sopravvivenza della coltura dei microrganismi, senza sapere le ragioni di questa pratica empirica. Sarebbe stato necessario aspettare Pasteur, nella metà dell’Ottocento, per capire che la lievitazione del pane è dovuta a microrganismi chiamati Saccharomyces cerevisiae, isolati dalla birra.

E’ così nata una industria che fa riprodurre i microrganismi, «nutrendoli» dello zucchero del melasso, li separa ancora umidi, con circa il 70 % di acqua, e li vende ai fornai in forma di «panetti», trasportati in veicoli refrigerati. Le lieviterie italiane producono circa 100.000 tonnellate all’anno di lievito fresco pressato, metà delle quali esportate. La produzione mondiale di lievito ammonta a quasi tre milioni di tonnellate all’anno.

La leggenda vuole che la signora Elisabetta Bird, di Birmingham, fosse allergica al lievito e che l’affettuoso marito Alfred, per non privarla della gioia del pane, abbia inventato un modo per far rigonfiare l’impasto facendo formare l’anidride carbonica anziché dal lievito, dalla reazione fra bicarbonato di sodio e cremor tartaro, un sale acido. La cosa riuscì, fu anzi apprezzata dai fornai e Bird decise di produrre il suo «lievito chimico», artificiale, su scala commerciale nel 1843. Il lievito artificiale permetteva di preparare il pane in modo rapido e risultava utile anche per rifornire i soldati durante le campagne militari.
Il bicarbonato e il tartaro però assorbivano l’umidità e dovevano essere venduti in bustine separate, il che era molto scomodo per i fornai e il cremor tartaro doveva essere importato dall’Italia dove era prodotto dalle fecce che restano sul fondo dei tini del vino. L’americano Horsford, qualche anno dopo, sostituì il cremor tartaro con il fosfato acido di sodio, una miscela che poteva essere venduta nella stessa confezione e che si usa ancora adesso per esempio per torte e dolciumi.

Il pane appena sfornato è profumato e buono. Tale profumo è dovuto a complesse reazioni chimiche e varia a seconda delle modalità della fermentazione e della temperatura e durata della cottura. Durante le fermentazione il profumo «di pane» è dovuto a composti gassosi (alcoli e aldeidi); altre sostanze sono responsabili del colore bruno e dell’aroma della crosta che si forma durante la cottura. La scoperta dell’origine di queste ultime avvenne nel 1912 ad opera del francese Louis Maillard che ebbe l’intuizione che si formassero dalla reazione fra gli amminoacidi, i componenti di tutte le proteine, e i carboidrati, gli zuccheri che sono presenti nell’amido o che si trovano allo stato libero. Si mise allora a combinare un gran numero di amminoacidi con molti zuccheri, scaldando le miscele a temperature fino a 150 gradi, variando l’acidità e la quantità di acqua presente e notò che si formano centinaia di composti. Maillard ne identificò vari nella crosta del pane, nel mais abbrustolito, nelle bistecche, nel caffè tostato. Purtroppo nella reazione di Maillard, insieme a sostanze che fanno aumentare la conservazione e il sapore e il profumo degli alimenti, si formano anche sostanze tossiche come l’acrilammide e l’idrossimetilfurfurale (HMF). A tali sostanze tossiche sono esposti anche i lavoratori dei forni e delle cucine che devono essere dotati di adatti ventilatori e cappe; chi l’avrebbe detto che anche per loro ci siano problemi di sicurezza sul lavoro?