Al solo pronunciare quei nomi, «Germania» e «Polonia», si è attraversati da un sussulto. Parafrasando Woody Allen, si può chiamarlo «effetto Wagner», quello che fa venire al mite cineasta newyorkese l’impulso irreprimibile a lanciare la Wehrmacht in un’invasione di mare e di terra.

Le tragiche vicende del secolo breve hanno influenzato anche la minuscola storia dello sport, tanto che la vicenda di tal Ernst Willimowski può ben essere assunta a simbolo delle travagliate aree poste al confine fra i due più popolosi paesi dell’Europa centrale. Nato come Ernst Prandella nell’allora tedesca Katowice, divenne cittadino polacco all’età di sei anni, nel 1922, quando l’Alta Slesia passò alla Polonia, dopo esser già stata boema, austriaca e prussiana. Morto il padre nella Grande guerra, fu adottato dal patrigno nel 1929 e assunse il cognome polacco.

A casa continuò a parlare tedesco, ma a scuola e sul campo di calcio usava un dialetto salesiano. Non che parlasse granché, essendo già molto eloquenti i gol che segnava a grappoli. A nemmeno 18 anni, debuttò in nazionale e nel 1938 la trascinò ai Mondiali francesi. In quella che sarebbe rimasta la sola apparizione dei biancorossi nel torneo iridato fino al 1974, la Polonia fu sorteggiata contro il già magno Brasile: finì per soccombere 6-5 ai supplementari, ma l’eroico Willimowski segnò addirittura quattro reti. Nel breve volgere di un anno, i nazisti occuparono la Polonia e l’Alta Slesia tornò germanica.

Mentre la madre fu reclusa ad Auschwitz per aver intrecciato una relazione con un ebreo russo, Willimowski attirò le attenzioni del selezionatore tedesco e fu schierato con i bianchi nelle frequenti amichevoli che la Germania giocò in tempo di guerra con le rappresentative dei paesi satelliti. Divenne così il solo giocatore ad aver segnato contro e per la sua «nuova-vecchia» madrepatria, totalizzando ben 13 reti in otto presenze. I suoi poster con la svastica sul petto e nell’atto di rivolgere il saluto nazista invasero la Polonia a scopo propagandistico e ne fecero un traditore agli occhi dei polacchi. Dopo la fine del conflitto, restò a giocare e vivere in Germania, finendo sepolto a Karlsruhe, non lontano dallo stadio cittadino.

Le relazioni tedesco-polacche sono oggi meno problematiche e non destano più scalpore i molti campioni di ascendenza polacca nelle file della Deutsche Mannschaft, da che pezzi da novanta come Jürgen Grabowski o Pierre Littbarski hanno sollevato trofei mondiali ed europei con la maglia dei bianchi. Ec è il polacco di nascita Miroslav Klose a superare l’apparentemente imbattibile record di Gerd Müller con la nazionale e a installarsi al vertice dei cannonieri mondiali di tutti i tempi con 16 gol.
In vista della partita di stasera, cui Germania e Polonia arrivano provenendo dallo stesso girone di qualificazione e avendo vinto l’incontro inaugurale, è un altro attaccante a sottolineare l’intreccio profondo che esiste fra tedeschi e polacchi: Robert Lewandowski.

Messosi in luce nel Lech Poznan, parve sul punto di approdare in Italia, attirandosi gli sfottò del caustico Aldo Agroppi che lo sbeffeggiò in diretta tv per il nome infelice. Passò allora al Borussia Dortmund, dove si mutò in una star internazionale, per finire inevitabilmente nella file della corazzata Bayern Monaco, che con trenta reti ha appena guidato all’ennesimo titolo in Bundesliga.

Nell’ottobre 2014 lo statuario centravanti ha avuto l’onore, durante le eliminatorie, di capitanare la prima nazionale polacca capace di superare la Germania dopo oltre ottanta anni di tentativi. Quella sconfitta per 2-0, vendicata a Francoforte con un disinvolto 3-1, è rimasta indolore per i campioni del mondo, poiché entrambe le squadre sono in lizza in questi Europei e lo resteranno anche dopo il confronto di stasera, qualunque sarà il risultato finale.