Come scrisse Amedeo Maiuri nel 1983, la storia di Ercolano – sepolta nel 79 d.C. sotto un durissimo strato di lava mista a fango – riemerse alla luce delle lanterne grazie a quei «diavoli di cavamonti napoletani che si cacciavano sotterra come i Cimmeri della favola». Già dal XV secolo umili pozzi domestici restituivano scaglie di antichità, prodigi da seguire per trovare l’ambita soglia di un glorioso passato. Fu attraverso uno di questi viaggi verticali che, tra il 1710 e il 1711, il principe d’Elboeuf risvegliò l’incanto del teatro con le sue statue femminili di reminiscenza greca. Nel 1738 i cunicoli realizzati dall’ingegnere militare Roque Joachín de Alcubierre fruttarono una messe di rinvenimenti a Carlo III di Borbone, che privo di cultura umanistica ma allettato dallo sfoggio della bellezza, aveva ufficializzato le ricerche nel sito di Ercolano. Anche Karl Weber, l’architetto subentrato ad Alcubierre, sfidò il buio per giungere alla catarsi della scoperta: la «grotta diritta», da lui scavata nel 1750, sfociò nel magnificente peristilio di una dimora abitata dall’arte e i cui «fantasmi» di bronzo – corridori, danzatrici – riecheggiano ora superbi nel Museo archeologico nazionale di Napoli.
La Villa dei Papiri Una residenza antica e la sua biblioteca (Carocci editore «Frecce», pp. 261, euro 28,00), scritto da Francesca Longo Auricchio, Giovanni Indelli, Giuliana Leone e Gianluca Del Mastro, parte dagli albori dell’archeologia vesuviana per raccontare l’esplorazione di un complesso che si rivelerà tanto sorprendente quanto intriso di enigmi. Il volume è dedicato a Marcello Gigante, grecista e filologo scomparso nel 2001, ricordato per l’incessante lavoro sui testi conservati nell’Officina dei Papiri e le numerose iniziative che nel 1969 portarono alla fondazione del Centro internazionale per lo studio dei papiri ercolanesi, oggi a lui intitolato. In virtù degli interessi scientifici degli autori, il saggio si concentra sull’analisi dei reperti che hanno dato il nome a una fra le più spettacolari ville di età tardo-repubblicana affacciate sul golfo di Napoli, appartenuta forse – le ipotesi sono varie e controverse – a Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, suocero di Giulio Cesare, console nel 58 a.C. e proconsole in Macedonia fra il 57 e il 55. Nondimeno, la trattazione ripercorre le tappe dell’impresa di Weber, la cui meticolosa pianta dell’edificio è servita per la ricostruzione della Villa a Malibu, come sede del J. Paul Getty Museum inaugurato nel 1974.
La scoperta dei papiri nel tablinum risale, secondo le fonti documentarie, al 1752, sebbene tale data debba considerarsi un punto di arrivo e non solo di partenza, in quanto gli scavatori non avevano da sùbito compreso che «quei pezzi di carbone increspati e contorti definiti efficacemente dal Winckelmann “corna di capra”» non erano resti da eliminare ma libri antichi. Copiosi ritrovamenti vennero fatti negli anni immediatamente successivi nel portico del peristilio quadrato, dove i rotoli erano custoditi in casse, e presso l’ingresso del peristilio rettangolare, ivi trascinati dalla colata lavica. Un dettagliato paragrafo – d’altronde l’esposizione nel suo insieme è caratterizzata da rigore e ricchezza di particolari – illustra i primi tentativi di svolgimento dei volumina, difficilmente leggibili a causa dell’amalgama del materiale papiraceo con l’inchiostro, entrambi di colore scuro. Dal metodo della scorzatura praticato da Camillo Paderni alla geniale macchina di Antonio Piaggio, basata sulla trazione del lembo estremo del papiro da parte di un sistema di fili di seta assicurati a ganci posti sulla sommitàg dello strumento, si passa ai processi chimici del Novecento per poi arrivare ai recenti approcci di lettura non invasiva, come l’applicazione della tomografia a contrasto di fase compiuta presso il sincrotrone di Grenoble dal fisico Vito Mocella con l’aiuto dei papirologi Daniel Delattre e Gianluca Del Mastro.
Il pregio del libro consiste nel filtrare le notizie spesso sensazionalistiche che negli ultimi anni hanno invocato il miracolo di «veggenza tecnologica» per offrire una sintesi aggiornata dei progressi scaturiti dalla digitalizzazione di vecchi inventari e cataloghi nonché degli studi multidisciplinari sulla biblioteca della Villa. Un patrimonio costituito da 1840 papiri carbonizzati – di cui la grande maggioranza, redatta in greco, contiene opere della Scuola di Epicuro –, che ha influenzato la moderna cultura europea. Vero e proprio «spirito» della Villa, nella quale verosimilmente soggiornò e concepì alcuni trattati, è il filosofo Filodemo di Gadara, il quale non smette di far arrovellare gli specialisti sull’identità del suo ospite e patronus, adepto di una dottrina dei piaceri che a distanza di secoli ci interroga con la raffinata insolenza del fasto antico.

Guglielmo Cavallo filologo e paleografo delle città antiche

Pioniere degli studi sulla biblioteca ercolanese, Guglielmo Cavallo gode di un numero rilevante di citazioni nel libro sulla Villa dei Papiri recentemente edito da Carocci. Come ebbe a dire lui stesso in Libri, scritture, scribi a Ercolano (Gaetano Macchiaroli editore 1983), sino a fine Ottocento «era la filologia che celebrava i suoi trionfi». Ma in quel medesimo declinare di secolo la scoperta e la successiva riproduzione fotografica dei papiri riaffiorati dalle sabbie d’Egitto favorirono la pubblicazione delle immagini degli esemplari di Ercolano, dando inizio alle prime analisi paleografiche delle scritture. Ed è proprio nell’opera su menzionata (alla quale sono seguiti diversi aggiornamenti) che Cavallo – filologo, paleografo e socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei – affronta il problema della forma dei volumina ercolanesi, descrivendone il formato, le caratteristiche dei fogli che compongono il rotolo (kollemata), la mise en page, il calcolo della quantità di scrittura (sticometria), i titoli e l’insieme di segni e note che consentono di interpretare gesti e pensieri impressi sul supporto più affascinante e fragile dell’antichità. Ma, senza perdere la tempra tecnica e rigorosissima del paleografo di rango, Cavallo possiede anche il dono di una narrazione non ripiegata sull’ego. È, infatti, un autore generoso che si rivolge a un vasto pubblico con l’umiltà di chi, maneggiando un’eredità delicata e preziosa, sa che i reperti, per sopravvivere, non possono prescindere dal soffio della parola.
La sua, sapiente e sgombra di malintesi come fosse colata da un alambicco, ci arriva ora attraverso un saggio gradevolissimo che condensa nondimeno l’impegno scientifico di lunghi anni. Scrivere e leggere nella città antica (Carocci editore «Frecce», pp. 313, euro 33,00) consta di cinque capitoli che, seguendo sommariamente criteri topografici e cronologici – dall’Atene classica alla lunga vita di Costantinopoli passando per la Ravenna bizantina – si snodano in un’infinità di temi. In questo presente «confinato», sarà di sollievo partire da uno qualsiasi degli immaginifici titoli delle differenti sezioni per essere proiettati in epoche in cui leggere comportava quantomeno una passeggiata all’aria aperta. Cavallo rievoca infatti un celebre passo di Aristofane tratto dagli Uccelli nel quale il commediografo descrive gli ateniesi al pari di famelici volatili che, al risveglio, si gettano sulle bancarelle di papiri per nutrirsi di psephismata. Dal V-IV secolo a.C., un commercio di decreti e altri tipi di documenti copiati sui papiri è infatti attestato nell’Agora, dove era facile imbattersi nelle figure del bibliographos e del bibliopoles. Quest’ultimo era solito effettuare letture per coloro che non erano in grado di comprendere da sé il contenuto di un testo. Un altro episodio ricordato da Cavallo mostra come, nel tardo V secolo a.C., il libro avesse perso il ruolo di ausilio alla memoria per performance recitative e si andasse ormai affermando quale deposito di un testo scritto destinato alla lettura e alla conservazione. Nei Memorabili di Senofonte, Eutidemo, che deteneva tutti i versi di Omero, dichiara infatti a Socrate che egli non vuole diventare rapsodo ma conquistare quanti più libri possibile.