La poesia moderna nacque «sentimentale» in quanto arte riflessa, frutto di raziocinio prima che di irenica invenzione se persino il giovane Giacomo Leopardi, pur deliberatamente antiromantico, ripeteva l’adagio che voleva la prosa, o l’intelletto delle cose, quale una nutrice del verso. Dunque l’idea critica, secondo l’etimologia scalare del discernere/valutare/giudicare, è immanente sulle opere della modernità sia nei periodi di ripensamento sia in quelli, e qui leggi le avanguardie, di rivolgimento radicale. Sembrava un paradosso quello di Roberto Longhi secondo cui critici si nasce e artisti si diventa, invece si trattava di una verità elementare e però talmente sovraesposta da riuscire invisibile. Non basta: critici, nel senso stretto anche se non necessariamente professionale (già ce lo ricordava il notevole volume di Andrea Cortellessa Libri segreti: autori-critici nel Novecento italiano, Le Lettere 2008), sono stati i maggiori scrittori dell’ultimo secolo, non esclusi i poeti.
A tale verità, rimossa o obliterata al tempo dell’infinito intrattenimento come della clausura narcisistica, oggi ci riporta lo studio di Chiara Fenoglio, La divina interferenza La critica dei poeti nel Novecento (Gaffi editore, pp. 350, euro 20,00), un libro che ha insieme i caratteri della necessità, perché occupa un campo abbandonato, e della limpidezza analitica, perché è scritto in uno stile propriamente saggistico e mai accademico o gergale. Nemmeno quarantenne, allieva a Torino di Giorgio Ficara (storico della letteratura italiana che sa essere, tra i pochi, un ottimo critico militante), Chiara Fenoglio si era già segnalata per diversi contributi sulla novellistica cinquecentesca, su Manzoni e Montale ma specialmente per una monografia di taglio molto particolare, ‘Un infinito che non comprendiamo’. Leopardi e l’apologetica cattolica del XVIII e XIX secolo (Dell’Orso 2007). Oggetto dell’attuale studio è il duplice regime critico che ha sostenuto la nostra poesia secolare e pertanto, da un lato, la costante auto-riflessione (produzione di poetiche, auto-commenti) come, dall’altro, l’esercizio più o meno sistematico della critica su giornali e riviste o insomma l’attività che Montale battezzò «il secondo mestiere».
Scrive Chiara Fenoglio nell’introduzione guardando, viceversa, a un presente criticamente disertato: «Ad emergere da questo quadro non sarà tuttavia il monumento a un epilogo, bensì più propriamente la segnalazione di una discontinuità, il senso di un orizzonte in parte mutato, come se il filo che intrecciava l’esile mito del poeta – la sua storia personale, i suoi versi – alle vicende collettive si fosse logorato, cedendo il passo all’iperspecialismo analitico o ancora alla ricerca fantasmatica della purezza». Qui vengono in mente, quanto alla attuale produzione, gli esempi di edizioni che si direbbero consapevolmente epigoniche (libri chiusi dentro una trafila intertestuale che li ammutolisce o ne rende la pronuncia tutta quanta di secondo grado) ovvero i libri, più numerosi ancora, che ambiscono a una immediatezza da blog, a un candore che sa di ignoranza e spesso di sfacciata velleità. Non fu appunto così per il secolo scorso, o almeno nel suo senso comune, fino all’infarto neoavanguardista.
Chiara Fenoglio riordina il suo studio in sette capitoli monografici e cronologicamente scanditi, i quali tracciano una mappa del Novecento, un secolo al plurale, un cosmo esploso in cui residuano comunque alcune stelle fisse: Ungaretti e il suo rapporto osmotico, endogeno e a ritroso, con la tradizione (Petrarca, Leopardi, il suo Mallarmé); Montale, che della tradizione fu un attento doganiere e insieme un oculato importatore del verbo modernista, se non altro fino alla palinodìa di Satura; Pasolini alla ricerca, via Pascoli, di una alterità inclusiva e progressivamente onnivora; Zanzotto e Luzi, sismografi complementari dell’exploit secolare, nell’alternanza di moti centrifughi/babelici e centripeti/ascetici; la triade costituita da Fortini, Sereni e Giudici, alle prese con la produzione neocapitalista, tra difficile acclimatazione, tensione utopica e astuta rassegnazione; infine Giorgio Caproni, nel cui infaticabile e umbratile, pluridecennale lavoro di recensore la studiosa legge non tanto un obbligo della metafisica modernista quanto, e soprattutto, il perpetuo segnavia della condizione a-teologica di chi si trovi a leggere e scrivere in una società di mercato e senza orizzonte ulteriore. Chiara Fenoglio disegna la sua mappa con precisione e ne deduce gli epicentri con oculatezza, senza mai alterare il concreto dei testi né deformare le linee prospettiche: è vero che nella analisi resta sempre sullo sfondo o tra le righe l’attività traduttoria che fu parte integrante, e anzi elettiva, della produzione dei poeti novecenteschi ma è vero altrettanto che solo uno studio monografico (e alcuni specifici ne esistono, per fortuna) potrebbe dar conto di ciò che abbiano rappresentato ad esempio Gongora o Blake per Ungaretti, René Char per Sereni, Eluard e Brecht per Fortini. Semmai molto sfumati appaiono gli estremi della mappa e i suoi apici cronologici: non è rappresentata la neoavanguardia e in particolare un poeta di grande rilievo quale Edoardo Sanguineti (la cui postura è evocata soltanto per fissarla in un «gigantesco bricolage» e in un «sistema di montaggio di segmenti citazionali», laddove se un poeta-critico è mai esistito costui è stato proprio Sanguineti), né viene analizzata la produzione di Giovanni Raboni, autore di un poemetto emblematico di fine secolo, Quare tristis, forse il poeta della sua generazione che in una ingente attività (si veda il postumo La poesia che si fa. Critica e storia del Novecento poetico italiano. 1959-2004, a cura di A. Cortellessa, Garzanti 2005) ha saputo più di ogni altro vagliare criticamente e avvalorare gli esiti o insomma i risultati ancora redivivi di una tradizione in via di esaurimento e ormai prossima alle derive e alle tautologie del cosiddetto postmoderno. E manca Umberto Saba, questo sì, se si vuole il poeta più remoto dalla militanza critica professionale, il più dislocato e ambiguamente anacronistico dei nostri novecentisti ma pur sempre il firmatario, a parte obiecti, di Scorciatoie e raccontini (un libro critico nella accezione più candidamente efferata del termine) e, a parte subiecti, di Storia e cronistoria del Canzoniere, un’auto-apologia dove si combinano il risentimento per la universale indifferenza riguardo alla sua opera e, innanzitutto, la mozione profonda di quella che il poeta di Trieste aveva definito agli albori come «poesia onesta». Il che voleva e vuole ancora dire poesia pagata in prima persona, metabolizzata, finalmente incarnata: «onesta» proprio perché consapevole del suo limite umano e delle sue ipoteche spazio-temporali, l’antipode, anche se a lungo è potuto sembrare il contrario, di quel candore, di quella assenza di spirito critico, di quel rovinoso solipsismo che oggi segna non tutta ma tanta produzione poetica e di rimando (il che è ancora più grave) la corrispettiva ricezione.
Rileva, in conclusione, l’autrice: «Da questa situazione di radicale entropia occorrerà ripartire per ritrovare un punto di vista verso cui autore, lettore e interprete possano nuovamente convergere nella ricerca di ciò che unisce il poeta agli altri uomini, che lo salva dal rischio dell’ammutolire». Impossibile, davvero, darle torto.