L’indagine di Demos sul rapporto fra gli italiani e lo Stato, commentata da Ilvo Diamanti qualche giorno fa su Repubblica, ha giustamente attirato l’attenzione, non solo degli addetti ai lavori. Ne emerge in modo piuttosto marcato un quadro di pesante demoralizzazione, anche tra coloro che, come chi scrive, hanno fatto dell’impegno politico uno degli assi principali su cui fare scorrere la propria vita.

A guardare bene i dati che l’indagine ci fornisce, un simile pessimismo non appare però del tutto giustificato. Anche perché alcuni di questi dati si prestano a più interpretazioni, anche rispetto a quelle molto autorevoli dello stesso Diamanti. Certo, se si guarda il riassunto delle risposte fornite, emerge il quadro di una società che sembra a un passo dall’intraprendere, addirittura con ampio consenso, avventure di tipo marcatamente autoritario. Cosa peraltro non nuova nel nostro paese e la storia, come si sa, non insegna altro che a riconoscere ex post che si sono fatti gli stessi errori di un tempo, ma non a evitarli. Spinge verso un’interpretazione di questa natura la crescita di consensi verso le forze dell’ordine che balzano, con il 70,1% dei gradimenti, di gran lunga in testa alla classifica dei preferiti. Un dato da leggere assieme al fatto che tre intervistati su quattro si pronunciano per l’elezione diretta del capo dello Stato. È fin troppo evidente il bisogno di sicurezza comunque sia che emerge da questi elementi.

Ma non si può leggere nello stesso modo la crescita di dieci punti in un anno della fiducia nella Chiesa. Non siamo di fronte a un orizzonte concordatario o da colpo di stato con la benedizione divina. Tutt’altro. La crescita di consensi verso la Chiesa è indubbiamente segnata da due fatti straordinari. Le dimissioni di Benedetto XVI, con la conseguente umanizzazione della figura papale, e il successo della figura di papa Francesco, confermata per ora dai suoi primi significativi atti. Ne emerge un’immagine innovativa della Chiesa, basata sulla sua capacità e rapidità di cambiamento, contrapposta, a torto o a ragione, nell’immaginario collettivo alla paralisi della politica e delle istituzioni laiche statuali e una sua nuova vicinanza con i problemi sociali e umani che la politica pare avere definitivamente abbandonato. Emblematico in questo senso è stata la visita di papa Francesco a Lampedusa. Quando Renzi ha voluto fare cosa astuta non ha potuto altro che imitarlo in seconda battuta, ovviamente con molta meno efficacia. La Chiesa appare dunque il contraltare – scusate il bisticcio semantico – delle istituzioni laiche, ma in modo anche positivo, soprattutto per colpa di queste ultime. In sostanza esprime nei suoi comportamenti una socialità e una vicinanza alle persone, che le seconde, prigioniere delle astratte politiche di rigore e alla normalizzazione della corruzione, hanno smesso da tempo di esercitare.

Diamanti insiste molto sul fatto che l’alternativa fra migliorare i servizi per i cittadini e ridurre le tasse abbia completamente cambiato di segno. In effetti nel 2005 il 54% degli intervistati sosteneva che il compito prioritario era quello di potenziare i servizi, mentre il 46% puntava sulla riduzione delle tasse. Nel 2013 il quadro è più che rovesciato: il 70% vuole ridurre le tasse lasciando solo al 30% la preoccupazione di migliorare i servizi. Ma mi parrebbe riduttiva una lettura che veda in questo elemento solo il tendenziale crollo dello stato sociale. Basta tenere conto che tra il 2005 e oggi si è inserita la più grande crisi economica che il capitalismo europeo abbia conosciuto, la cui fine è tuttora del tutto imprevedibile. Da allora, a causa anche delle scelte sbagliate di politica economica attuate nella Ue e nel nostro paese, da un lato si sono ridotte quantità e qualità dei servizi pubblici offerti e dall’altra è precipitato il reddito della stragrande maggioranza degli italiani, come mostrano anche le ultime cifre sull’incremento della povertà. Avendo meno o affatto liquidità in tasca è del tutto comprensibile che gli intervistati si preoccupino in primo luogo di ridurre la pressione fiscale, più che migliorare la qualità dello stato sociale. Non si può pretendere dai comuni cittadini quella lungimiranza che è del tutto assente nelle classi dirigenti economiche e politiche.

La fiducia nell’Unione europea è scesa di ben dieci punti nel giro di un anno. Anche qui la meraviglia sarebbe fuor di luogo. Gli intervistati hanno ben colto le responsabilità delle politiche di austerity europee sul peggioramento delle proprie condizioni di vita. Nel contempo, però, l’atteggiamento verso le istituzioni europee è sempre più positivo di quello verso quelle nazionali e locali. Questo elemento non è forse sufficiente a rassicurarci del tutto sull’interesse che gli italiani mostreranno ad esempio alla partecipazione nelle prossime elezioni europee, ma è pur sempre una indicazione abbastanza esplicita, per chi la volesse raccogliere, che queste elezioni non potranno essere, come nel passato, semplicemente un braccio di ferro a fini interni e che invece il tema di un cambiamento delle politiche economiche europee dovrebbe essere l’argomento principale.

Ma veniamo al punto più interessante, con cui si può concordare pienamente con Ilvo Diamanti. Gli indici di partecipazione alla vita sociale e politica mostrano per fortuna un andamento completamente divergente da quello seguito dagli indici su cui si misura l’opinione. Diamanti ci ricorda che 5 italiani su 10 dichiarano di avere partecipato nel 2013 a manifestazioni o iniziative politiche, di avere preso parte a lotte e dibattiti, sia nelle piazze che sul web. Le mobilitazioni in Rete hanno poi attirato in prevalenza un pubblico giovanile, che coprirebbe il 36% degli intervistati. Insomma ne emerge un quadro di un’Italia tutt’altro che rassegnata, sfiduciata o addirittura cinica.

Questo elemento va messo subito a confronto con il precipitare della fiducia nei partiti e nel parlamento, rispettivamente il 5,1% e il 7,1%. Valori che erano già bassi l’anno precedente – che quindi più di tanto non potevano scendere – ma che confermano la tendenza in una sfiducia nelle istituzioni della democrazia rappresentativa e nelle rappresentanze organizzate. Si ripropone qui e si conferma ciò che in fondo avevamo già visto o almeno intuito. Il successo senza precedenti del referendum sull’acqua e sul nucleare contrapposto all’astensionismo crescente nelle elezioni di ogni ordine e grado, dimostrava già un conflitto evidente e ormai radicato tra le forme della democrazia diretta, partecipativa e deliberante e quelle della democrazia rappresentativa. Ha ragione perciò Diamanti ad affermare che il clima «antipolitico» che attraversa l’Italia non va inteso in modo assoluto, ma che al contrario «evoca il vuoto della politica e, al tempo stesso, una domanda di politica molto estesa», quanto inevasa.

Solo che questa domanda non può trovare risposta nell’attuale sistema partitico che l’ha così palesemente e clamorosamente delusa. Questo vale anche, e a maggior ragione, nel campo della sinistra d’alternativa, ove, nel nostro paese in particolare, qualsiasi idea di rimettere insieme le frattaglie è già stata recentemente falsificata dai fatti. Tutto ciò dovrebbe fare riflettere bene e in tempo tutti quanti in vista delle prossime elezioni europee, che a sinistra si giocheranno sull’alternativa programmatica incarnata da un lato da Schultz e dall’altro da Tsipras. Ovvero da un lato l’Europa così com’è, incastrata dalle politiche delle larghe intese, e dall’altro l’Europa possibile, quale potrebbe nascere dalla apertura di un vero processo costituente fondato sulla volontà popolare. Stare in mezzo non serve.

Si possono anche considerare spigolose alcune affermazioni fatte di recente da Flores d’Arcais, ingenerose soprattutto verso le realtà di sinistra d’alternativa presenti in Europa al di fuori dei nostri confini. Ma non si può non condividere, fino alle sue pratiche conseguenze, l’appello proveniente da più parti – di cui Barbara Spinelli è stata ed è autorevole portatrice – a costruire una lista di cittadinanza, fondata su un programma antiausterity che preveda la profonda modifica dei trattati e del ruolo della Bce, la cancellazione del fiscal compact, il riequilibrio tra i paesi del Sud e quelli del Nord, la rinegoziazione e il taglio del debito, la democratizzazione dei processi decisionali delle istituzioni europee, e che nasca, senza preclusioni, ma soprattutto attraverso un processo partecipativo senza accordi tra micro partiti. Non sarebbe ancora la risposta al vuoto di rappresentanza politica, per cui ci vuole un lavoro teorico e pratico di ben altra e più lunga lena, ma almeno un passo coerente in quella direzione.