Sappiamo ormai bene quale potenza sprigionino le parole nel creare il nostro immaginario quotidiano. Esse sono il nostro immaginario, dunque i mattoni con cui si costruisce l’edificio della politica. E le parole dominanti, potremmo ripetere con Marx, sono l’espressione delle classi dominanti.Veicolano messaggi in cui si condensano esortazioni e imperativi lanciati alle masse dai potentati economici, intere grammatiche suggerite al ceto politico per indirizzare le loro strategie nel governo degli stati. Pensiamo a una parola come mercati. Un tempo indicava i traffici commerciali, ora una potenza impersonale, un arbitro supremo e indiscutibile a cui tutti devono inchinarsi.

«Come reagiranno i mercati?» si chiedono sgomenti politici e giornalisti. Con una parola si nobilita la speculazione e si caccia in un angolo la sovranità degli stati. Non è poi senza significato se ormai da diversi anni le parole nuove che fanno ingresso nella sfera della comunicazione provengono quasi esclusivamente dal mondo della tecnica e delle merci. L’innovazione linguistica del nostro tempo sembra interamente affidata a termini come software web, wi fi, app, oppure iphone, smart phone, tablet, ecc, cioé la prosecuzione merceologica dei lemmi delle tecnologia comunicativa. Se si riflette bene, anche in un ambito nel quale si offre un vantaggio collettivo – quello di una più ampia diffusione della comunicazione e dell’informazione – dominano in assoluto le parole che designano mezzi, strumenti.

Utensili per qualche scopo che rimane indeterminato e privo di contenuto. Questa prevalenza del significato strumentale su quello dei fini, si osserva bene nel linguaggio corrente della politica, che invece non sa creare quasi più nulla. Le sdrucite parole del bla bla quotidiano, che riempiono le pagine dei giornali, le chiacchiere del discorso televisivo sono parole-utensili, mezzi di qualche altro mezzo: riforme, flessibilità, crescita, competizione. Per quale altro fine se non quello di portare doni sacrificali al totem del Pil? E per quale scopo incrementare il Pil ? Non è detto.Perché ormai sono diventate impronunciabili le parole benessere collettivo, felicità pubblica, qualità della vita, godimento spirituale, fruizione della bellezza, convivialità. E’ un edonismo insostenibile per il potere del nostro tempo, che ha messo al centro della scena l’individuo, insoddisfatto consumatore e solitario produttore, che deve lottare come un leone per essere competitivo, primeggiare, conseguire l’eccellenza: il tutto per un fine mai detto, ma che si suppone essere l’approdo al paradiso delle merci.

Ancora un arsenale di altri strumenti. Giova rilevare, in questo festival parolaio dei mezzi, la scomparsa del termine sviluppo. È stato interamente assorbito dal lemma crescita, vale a dire ’’incremento della ricchezza senza nessun aggettivo, senza neppure un accenno alla sua qualità, per non dire alla sua sostenibilità. Abbiamo già dimenticato che la crescita – che si vuole per giunta illimitata – si svolge entro i limiti materiali di risorse finite, nella sfera di equilibri naturali fragili, da cui sempre di più dipende la nostra stessa sopravvivenza.
Qui noi cogliamo almeno un tratto del tracollo egemonico in atto nel campo capitalistico.

Parlo di egemonia, non di dominio, che si è anzi accresciuto in questi anni di crisi. I poteri dominanti non hanno più parole capaci di indicare i fini per i quali si affannano a indicare i mezzi. Non solo gli stessi mezzi sono diventati sempre più scarsi per una massa crescente di individui. Ma quando si provano a indicare le prospettive, il premio, il traguardo per il quale è necessario oggi ingaggiare la lotta per la vita, devono ricorrere al nulla: al termine futuro. Devono cioè rinviare a un tempo che non c’è, a un vuoto limbo di possibilità senza contenuti.

E non facciamoci intimidire dalla sprezzante aggettivazione con cui la recente «sinistra neoliberista», bolla come vecchio e dunque da gettare in discarica, ciò che non appare all’altezza dei comandi più aggiornati del potere. Essa infatti disprezza come obsoleto non ciò che non corrisponde agli umani bisogni, non ciò che non ha più radici nella realtà, ma quel che appare inadeguato alle necessità della crescita, alle urgenze congiunturali delle imprese. E’ una ricerca del nuovo che traduce in linguaggio politico un imperativo commerciale. In quel nuovo pubblicitario traluce la trasformazione spirituale degli ultimi decenni: la mercificazione delle psicologie collettive.

Quello delle parole è un territorio dove la sinistra può raccogliere le sue insegne, i suoi simboli, i suoi messaggi, i suoi valori ancora intatti, il suo immaginario accogliente. Noi possiamo mostrare l’umana felicità possibile, mentre l’avversario si è trasformato in un aguzzino che comanda paradossali eroismi agli individui: una vita eroica e da poveri in un mondo opulento. La gioia di vivere, il benessere collettivo, la difesa dei beni comuni (importante conquista recente del linguaggio e dell’immaginario): dalle risorse naturali alla bellezza dei monumenti e del paesaggio, dal mangiar bene e sano alla sicurezza dei cittadini nel territorio, dalla salubrità dell’ambiente al tempo di vita sottratto al lavoro. E il mezzo per perseguirli non è la competizione, ma la solidarietà: che è un mezzo e al tempo stesso un fine, perché dà gioia anche a chi la pratica, oltre che a chi la riceve. Ma per dire le nostre parole, nei nostri multiformi «dialetti», con le nostre preziose diversità, abbiamo bisogno di un luogo dove dirle. Per nostra fortuna questo luogo esiste, ma è ancora in pericolo: è il manifesto. Occorre che tutti a sinistra sappiano che senza il manifesto saremmo senza parole, muti. E ancora più dispersi.

Se non diamo a Norma Rangeri e ai suoi e nostri compagni la possibilità di ricomprarsi la testata subiremo una delle più gravi sconfitte della nostra storia.