Che la cultura politica del M5S contenga degli aspetti assai problematici, circa il concetto di rappresentanza ad esempio, nessuno lo può negare. Ma la lecita contestazione delle ambiguità teoriche del non-partito sta degenerando in un impiego di toni eccessivi, ai limiti dell’invocazione di misure repressive.

Davvero si può chiudere il discorso sull’esperienza controversa dei «cittadini-portavoce» con la sentenza inappellabile che si tratta di una forza eversiva da sorvegliare e punire?

Ad alzare il tiro per adottare urgenti misure di immunizzazione sono gli stessi editorialisti che per Grillo votarono nel 2013 salutandolo come la benedetta ultima diga contro la terribile avanzata «neosocialdemocratica» di Bersani e Vendola.  Agli apprendisti stregoni, che pensavano di utilizzare il fato antipolitico del «tutti a casa» per sganciare fumogeni e poi riprendere il controllo del potere, non è andata bene. E il giocattolo alquanto rischioso è esploso loro in mano.

Ora che la rivoluzione passiva è fallita, tra le rovine generali del sistema, temono per le belle regole della rappresentanza che paiono strapazzate dall’irruenza di parlamentari che hanno in testa solo la polemica sul vitalizio. E però la nozione di «casta», come simbolo della funzione politica da un decennio messa sotto assedio, non è stata assunta proprio dalla stampa padronale come la bandiera ideologica con cui brandire la disprezzata funzione politica?

Sui fogli più influenti, gli opinionisti si dichiarano adesso allarmati per la decadenza dell’élite che espone il sistema al rischio di declino per una carenza di capacità di governo. Ma non è stato proprio il giornale di via Solferino a teorizzare per primo il sorteggio quale metodo di elezione del senato?

E l’elogio dell’inesperienza assoluta, come giustificazione per fulminee carriere istituzionali di ministri copia e incolla, non precede forse la retorica dissolutiva dell’uno vale uno?

Il guaio è che la seconda repubblica è nata con le devastanti istanze dell’antipolitica immesse nel circuito democratico nei primi anni ’90 e poi dilagate in una metastasi senza più argine. Il Movimento 5 Stelle non è quindi la causa della decadenza dello spirito pubblico, è semmai il risultato di un ventennio di proliferazione di coppie devianti: vecchio-nuovo, società civile-società politica, cittadini-partiti, popolo-élites, boy scout-partitocrazia, sindaco in bici-casta. Su queste basi nessuna innovazione politica è possibile, resta solo il decadimento del potere nel pantano della demagogia.

La destra politica ed economica, i media unificati, la linea dell’antipolitica seguita nel centro-sinistra da Occhetto a Renzi hanno prodotto il deserto culturale. E per questo i barbari possono dedicarsi alle loro scorribande senza inibizioni: il populismo è di sistema. Chi ha giustificato la riforma delle istituzioni con l’argomento che solo grazie ad essa molti senatori avrebbero perso la poltrona dorata non può certo dare lezioni di senso dello Stato e presentarsi come ultimo custode di una cultura delle regole.

Non è di sicuro per le suggestioni ultrademocratiche ricavate da Rousseau che il M5S allarma. Magari ci fosse davvero una sensibilità roussoiana, e quindi partecipazionistica e dialogica, a risuonare nelle corde di Grillo e Casaleggio, che sono piuttosto un episodio di conquista microaziendale di una grande influenza politica. La Fondazione Open o Mediaset possono però obiettare qualcosa di sensato alla contaminazione di pubblico e privato che culmina in un oscuro centralismo computerizzato?

Ci vuole una alternativa al sistema politico che ha incorporato antipolitica e simboli di populismo come propria ideologia di sostegno. Si può impedire il declino storico della repubblica solo con la riprogettazione di una grande sinistra in grado di riprendere il sentiero interrotto, da troppo tempo. Rousseau (perché no?) e Marx (la critica dell’economia politica è vitale per l’emancipazione) tracciano i percorsi di ricerca e di azione collettiva oggi tornati molto attuali.

In stagioni di crisi della democrazia, ridotta a una ginnastica elettorale insignificante, risuonano gli ammonimenti del ginevrino contro le illusioni degli inglesi che si limitavano ad andare alle urne ogni tanto credendo così di essere liberi. E in un tempo distruttivo di dominio della mercificazione, con una prolungata aggressione ai diritti del lavoro che paiono un costo insopportabile dinanzi al piano nichilistico del capitale, la lente per comprendere il mondo arcano del denaro viene sempre da Treviri.

Tornare a coniugare il Contratto sociale e Das Kapital, allora? Sì, sarebbe una tappa per la conquista di una libertà dei postmoderni.