Se è vero quel che ha detto giusto un anno fa da queste parti lo scrittore britannico Ian McEwan, che la letteratura porta con sé la dote, unica, di farti entrare nei panni degli altri, proviamo a fare quest’esercizio con l’americano-vietnamita Viet Thang Nguyen – premio Pulitzer nel 2016 con Il simpatizzante – e a chiedergli, a margine del premio Bottari Lattes Grinzane dov’è stato inserito nella cinquina finale, come ci si può sentire quando si sceglie di salire su un barcone per sfuggire a una guerra, visto che a I rifugiati (pubblicato come il precedente da Neri Pozza) ha dedicato un libro di racconti ed è stato lui stesso un boat people, come venivano chiamati i vietnamiti che scapparono dopo la fine della guerra. Un termine coniato dai media che lui non ha mai voluto usare perché, a suo parere, troppo «disumanizzante».

Qual è la differenza tra un rifugiato negli anni Settanta e uno di oggi, negli Stati Uniti?

Ho una certa familiarità con questa condizione. Faccio parte di quelle centinaia di migliaia di persone che sono fuggite su una barca. Era il 1975, avevo appena quattro anni, i miei genitori erano poco più che quarantenni. In Vietnam avevano una vita agiata, hanno lasciato tutto quello che avevano costruito, il loro passato. È stato traumatico per loro, perché dovevano ricominciare e allo stesso tempo pensare ai loro bambini, me e mio fratello. Si sono trovati in un campo militare di un posto che non conoscevano (hanno trascorso tre anni tra Fort Indiantown Gap e poi ad Harrisburg, in Pennsylvania, ndr), non parlavano la lingua e gli veniva portato un cibo per loro strano. Dal punto di vista mio, invece, era tutto diverso. I bambini sono molto resilienti, riescono a sopportare il dolore. Ho sofferto quando sono stato tolto ai genitori e affidato a uno sponsor. Poi, quando mi hanno restituito alla mia famiglia, sono stato felice. Ero in un paese nuovo dove c’era la neve, feci nuove amicizie. I bambini non sanno niente del mondo, finché sono con i genitori per loro tutto è nuovo e bello. Questo mi fa pensare alla politica dell’amministrazione Trump di separare i figli dai genitori. Si può discutere di tutto, ma non di privare un bambino della propria famiglia.

Lei ha scritto che «in un paese dove i beni di proprietà erano l’unica cosa che contasse, non avevamo niente che ci appartenesse», tranne le storie. Come avete fatto?

I miei genitori dovevano uscire dal campo e trovarsi un lavoro, e allo stesso tempo prendersi cura di noi. Ancora oggi non so come siano riusciti a sopravvivere, anche se alla fine sono riusciti a ricostruirsi una vita persino migliore di quella precedente. Probabilmente quando non hai altra possibilità fai di tutto. Però so di altrettante persone che non ce l’hanno fatta. Una situazione di questo genere produce dei forti danni a livello personale e familiare, ci sono degli abusi emotivi fortissimi.

«Io non sono un rifugiato», dice un commerciante di Aleppo sbarcato in Grecia al reporter Agus Morales – fondatore della rivista spagnola di giornalismo narrativo 5W – dandogli il titolo a un suo libro (pubblicato da Einaudi). È formalmente un rifugiato, ma non si percepisce come tale. Lei invece rivendica apertamente il fatto di esserlo stato.

Lo affermo pubblicamente ogni volta che ne ho la possibilità. Esiste una definizione oggettiva, quella fornita dalle Nazioni Unite («Chiunque nel giustificato timore d’essere perseguitato per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi», ndr). Nel mondo ci sono 68 milioni di apolidi, 22 di questi sono tecnicamente rifugiati. Poi c’è n’è una soggettiva, vale a dire come ci si percepisce, come ci si sente, come si viene trattati. In ogni modo, si tratta di persone che non sono volute nel paese da cui provengono e non sono accettate nei luoghi d’arrivo. Io sono molto solidale nei loro confronti, perché a mia volta sono stato un rifugiato.

Ci si può sentire rifugiati anche quando non lo si è formalmente?

Quella di rifugiato è una definizione precisa. Il mio lavoro si concentra sulle condizioni delle persone che hanno vissuto la guerra e sono state costrette a fare delle scelte estreme in condizioni molto difficili. È chiaro che, al di là delle definizioni, a ciascuno di noi può capitare nella vita di sentirsi non voluto. Credo ci siano dei tratti comuni tra quello che fa uno Stato, che può espellere o non far entrare delle persone, e quello che fa l’essere umano in alcune situazioni, espellendo ad esempio delle persone dalla propria vita. Per evitare tutto ciò, credo dobbiamo lavorare molto, specialmente sui bambini.
In Italia negli ultimi mesi c’è stata un’impennata di atti di razzismo nei confronti di immigrati, richiedenti asilo e rifugiati.
Non conosco con precisione la situazione italiana, ma non mi pare molto diversa da quello che accade negli Stati Uniti. Anche noi abbiamo dei flussi migratori dal Messico e dall’America centrale. Per questo si è creato un forte sentimento anti-immigrati ed è stato costruito un muro alla frontiera. C’è una divisione nella società, tra chi prova un sentimento di pietà e chi ne è spaventato. Vedo la stessa cosa anche da voi.

Ha affermato che non le piace il termine boat people. Perché?

Non ho mai voluto utilizzare il termine boat people, che era molto in voga all’epoca, perché lo trovo disumano. Non bisogna dimenticare che la metà dei vietnamiti che scappavano sono morti. Sapevano tutti che si sarebbero lanciati in un viaggio disperato e allo stesso tempo eroico, bisogna chiedersi perché hanno deciso di farlo. Negli Usa abbiamo una visione eroica degli astronauti, ma non pensiamo che la loro possibilità di sopravvivere al volo nello spazio è molto superiore a quella dei rifugiati che salgono su un barcone. Dobbiamo provare a immaginare cosa si prova, come ci si sente a salire su una barca mettendo a rischio la propria vita. Chi scrive dovrebbe parlarne in termini eroici, come se questa esperienza fosse un’odierna odissea.

Si definisce un vietnamita «made in Usa». Che relazione ha conservato con il suo paese d’origine?

L’ho lasciato nel 1975 e sono tornato per la prima volta nel 2002. Fino al 2012 ci sono stato altre cinque o sei volte, come studente, scrittore e docente universitario. Poi non ci sono più andato, perché I rifugiati è uscito censurato. Hanno cancellato il racconto autobiografico in cui parlavo della storia mia e dei miei genitori. Il Simpatizzante dovrebbe essere pubblicato ma è molto critico con il Partito comunista, stiamo aspettando da aprile che ci diano una risposta. Tornerò solo quando i miei libri saranno pubblicati integralmente.