Cresce di ora in ora l’imbarazzo del governo italiano di fronte alle verità-farsa apparecchiata dal governo «amico» del dittatore al Sisi sulla tortura e dell’omicidio di Giulio Regeni. Negli scorsi giorni il presidente Matteo Renzi, dopo le promesse di collaborazione «da padre» del generale golpista a Repubblica, aveva parlato di «passi avanti». Come uno sberleffo, una macabra beffa, dal Cairo sono arrivate le presunte prove dell’uccisione di Regeni da parte di una banda di cinque rapitori, a loro volta uccisi. Ieri dagli stessa media egiziani sono piovute smentite definitive a questa versione.

Per il nostro paese lo smacco è profondo. «L’Italia non si accontenterà di nessuna verità di comodo» assicura Renzi nella sua e-news. Ma sono parole, per ora. «Consideriamo un passo in avanti importante il fatto che le autorità egiziane abbiano accettato di collaborare e che i magistrati locali siano in coordinamento con i nostri. Ma proprio per questo potremo fermarci solo davanti alla verità. Non ci servirà a restituire Giulio alla sua vita. Ma lo dobbiamo a quella famiglia. E, se mi permettete, lo dobbiamo a tutti noi e alla nostra dignità».

Le cose però non stanno così. Persino ai vertici del partito del presidente del consiglio la versione corrente è tutt’altra. «Il governo egiziano si decida a collaborare», dice la vicepresidente Pd Debora Serracchiani. E sul fronte della mancanza totale di cooperazione e persino di dialogo fra inquirenti dei due paesi è stato proprio il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone a ammettere, con tanto di un comunicato ufficiale, che i magistrati italiani stanno ancora aspettando «le informazioni e gli atti da tempo richiesti e sollecitati». Una smentita chiara alla versione della collaborazione delle due magistrature che il premier prova ad accreditare per non dover ammettere una verità lampante: che negli scorsi due mesi nessun reale «passo avanti» è stato fatto nelle indagini; e che l’Italia non ha ottenuto nulla dal generale golpista, se non «l’oltraggio» – così lo definiscono molte forze politiche – di una «messa in scena» – questa definizione invece è della famiglia Regeni – di una storia che non sta in piedi.

In un incontro che si terrà il prossimo 5 aprile gli inquirenti romani chiederanno alla polizia egiziana di ricostruire ed approfondire l’iter che ha portato i documenti di Regeni «nella disponibilità della persona presso la quale sono stati trovati». Quelli fotografati su un piatto d’argento e mostrati alla pubblica opinione. Sarebbe già accertato invece che il borsone rosso ugualmente mostrato dai media egiziani, di Giulio non era, né il tocco di fumo «ritrovato» fra i suoi effetti personali. «Infamanti depistaggi» di fronte ai quali lo sgomento è «nostro e dell’Italia intera», secondo l’avvocata della famiglia Regeni Alessandra Ballerini. Che però non dubita dell’azione italiana: «Allo sgomento si unisce la soddisfazione e la fierezza di essere italiani e di avere il sostegno delle istituzioni, delle tante associazioni umanitarie e soprattutto dei cittadini».

Una convinzione che sembra vacillare persino nelle massime autorità dello stato. «L’ennesima versione dei fatti sull’omicidio di Giulio Regeni è scoraggiante e getta un’ombra sul rigore delle indagini svolte in Egitto», dice la presidente della camera Laura Boldrini. Ma la parola ’ombra’ è un chiaro eufemismo del linguaggio istituzionale.

Ma in questione non è solo l’atteggiamento del Cairo. È piuttosto quello del governo italiano nei confronti di al Sisi e dei suoi. La «messa in scena» dimostra che poco è stato fatto per ottenere la verità sull’atroce morte di Giulio, e quel poco non è stato efficace. «L’ultima versione offerta dalle autorità egiziane non solo è priva di ogni credibilità, ma è un’offesa alla famiglia di Giulio e all’intelligenza di tutti coloro che attendono la verità», attacca Alfredo D’Attorre (Si), e «la reazione del governo italiano è burocratica e inadeguata». Palazzo Chigi attutisce i colpi, ma è ormai evidente che ha nutrito un eccesso di fiducia nella già discutibile «amicizia» con il dittatore. Ora deve trovare una maniera per uscirne fuori. Ora che però le prove dell’omicidio sembrano fatalmente svanite o inutilizzabili. A questo punto serve un dibattito in aula secondo Alessandro Di Battista (m5s): «Ministro Gentiloni, ti degni di venire in Parlamento per dirci due parole su Regeni? Senza fare il democristiano possibilmente».