Vladimir Putin ha oltrepassato il Rubicone e ha deciso di scommettere sulla tenuta (perlomeno a medio termine) di Alexander Lukashenko. Dopo aver affermato giovedì scorso di avere messo a disposizione del presidente bielorusso una «riserva di uomini» in caso di inasprimento della crisi ha voluto aggiungere di considerare le elezioni dello scorso 9 agosto in Bielorussia «regolari anche se non perfette, visto che neppure Dio ha creato un mondo perfetto».

E domenica, dopo avergli «caldamente» fatto gli auguri per il compleanno, ha confermato che lo incontrerà a breve a Mosca per «rafforzare ulteriormente l’alleanza russo-bielorussa e ad espandere una cooperazione reciprocamente vantaggiosa». Cosa significhi concretamente è ancora difficile prevederlo, ma Mosca è già intervenuta in settimana per stabilizzare la situazione del piccolo alleato slavo rifinanziando per 1 miliardo di dollari il suo debito. Si può presumere che il presidente russo prometterà – in cambio a questo punto la più completa fedeltà di Lukashenko – di tornare a vendere idrocarburi a prezzi sotto il livello del mercato per favorire le succose triangolazioni con cui ha prosperato l’economia bielorussa per molti anni, ma è difficile che la Russia possa fare molto altro finanziariamente.

Il «grande fratello» però in tal modo si aliena – ma il prezzo è stato calcolato – le simpatie della parte più dinamica e giovane dell’opinione pubblica bielorussa. Promettendo di stabilizzare la situazione del paese anche economicamente, Putin rischia qualcosa di più importante, di entrare in quella spirale che fu uno dei motivi che condusse al crollo dell’Urss: finanziare un alleato per garantirsene l’alleanza. Il rischio per il Cremlino, visto che il prezzo del greggio non sembra destinato a crescere prossimamente, è quello di una «sindrome polacca» che negli anni ’80 dello scorso secolo condusse al disfacimento del regime di Yaruzelski malgrado la macchina repressiva fosse molto ben oleata.

Forse anche per questo Putin sta continuando a chiedere all’alleato moderazione e apertura di canali di dialogo con i «settori moderati» dell’opposizione, ovvero con i «filo-russi» di Victor Babariko, l’ex-candidato alla presidenza ancora in prigione.

Un’apertura che Lukashenko è disponibile a fare solo però verso fantomatiche «associazioni civiche» e proseguendo sulla strada della riforma costituzionale da lui promessa, i cui contorni restano poco chiari.

Domenica il movimento democratico è tornato in piazza ormai per la quarta domenica consecutiva.  A Minsk la manifestazione è stata oceanica e gioiosa ma i reparti antisommossa in alcuni snodi della capitale hanno operato scientificamente per realizzare una repressione selettiva: alla fine della giornata, secondo i dati del ministero degli interni, sono stati 123 i fermi.

Altre manifestazioni in tutto il paese da Grodno a Brest e dappertutto neppure uno slogan contro Putin, neppure un cartello contro la Russia, segno della grande maturità politica di chi scende piazza di non voler dar adito a chi – a est come a ovest – vorrebbe trasformare una protesta su questioni interne, in una corrida geopolitica. Chi non ama le frontiere è invece la Chiesa cattolica che si schiera a fianco delle proteste con un netto comunicato del cardinale tedesco Reinhard Marx (lontano parente del più celebre Karl). La reazione non si è fatta attendere: le guardie di frontiera non hanno permesso al capo della Chiesa cattolica bielorussa, Tadeusz Kondrusiewicz, di rientrare nel paese dalla Polonia.

Continuano anche gli arresti. Due quelli eccellenti di ieri: l’avvocato Lilia Vlasova membro del «Consiglio di coordinamento» dell’opposizione a cui si contesta la «partecipazione a manifestazioni non autorizzate» e quello di Sergey Cebotarev del comitato di sciopero della Belaruskalia di Salihorsk. Qui ci sarebbe una delle poche sacche di sciopero ancora attive.