Ora è un coro a sostenere che Renzi è un tappo e l’attuale PD un ingombro. Rispetto alla pressante esigenza di una opposizione oggi, orientata a un’alternativa domani. Fanno eccezione solo lui, la sua corte e i suoi fan (va riconosciuto: ve ne sono anche tra gli elettori, non solo nel ceto politico la cui sorte da lui dipende). Mauro Calise, politologo, autore di un saggio dall’eloquente titolo “il partito personale” ed editorialista tra i più espliciti sostenitori del corso renziano ora invoca una “feroce autocritica”. Lo stesso va facendo la già super renziana Elisabetta Gualmini. Alla buon ora. Usa dire che non tutte le responsabilità sono in capo a Renzi. Ovvio, ci mancherebbe. Sempre che tale assunto non si risolva in un escamotage diversivo.

Se gran parte degli osservatori ha parlato della torsione del PD come PDR (“Partito di Renzi”) ciò significa che a personalizzare un po’ ci si è costretti dalle cose, che non è un pregiudizio. E tuttavia è tempo di fissare più estese responsabilità, di abbozzare un’autocritica collettiva.

Comincio da me, che pure, da sempre, sono stato e sono un severo critico del renzismo. In parte, lo riconosco, esso è anche figlio nostro. Da prodiano non pentito, penso all’enfasi sulle primarie. Non quelle di coalizione che difendo, ma l’elezione diretta del leader PD, sancita dallo statuto, che lo blinda per quattro anni, grazie a una maggioranza personale più che politica, quand’anche dovesse inanellare sconfitta dopo sconfitta, come nel nostro caso. Penso anche, sul piano ideologico-programmatico, alla suggestione della Terza via, figlia di una lettura ingenuamente illuministica della globalizzazione, negli anni novanta, che impresse una curvatura liberale alla sinistra italiana. Penso infine a una quasi “religione del maggioritario” con elementi di democrazia di investitura che ha oggettivamente concorso a produrre una inopinata accelerazione verso un innaturale bipartitismo e il partito del leader.

Va detto che fu Veltroni a forzare in quella direzione: sia nella velleitaria prospettiva bipartitica, sia nella concezione del “partito del capo”, sia nella suggestione blairiana, più lib che lab, che è il segno del discorso del Lingotto con cui Veltroni esordì fissando il profilo del suo PD. L’Ulivo di Prodi, in verità, non si spinse sin lì: era bipolarista non bipartitista, imperniato su coalizioni plurali e non sul partito unico del centrosinistra, convinto che le storiche culture democratiche e riformiste dovessero vivere in una nuova sintesi, non annullarsi dentro una sorta di “pensiero unico”. Del resto, fu l’annunci, da parte di Veltroni, del no alla coalizione in nome della cosiddetta “vocazione maggioritaria” del PD (di fatto la presunzione dell’autosufficienza) la causa prossima della caduta del secondo governo Prodi nel 2008.

Anche perché, in quel frangente, Veltroni ragionava con Berlusconi di una legge elettorale che sancisse il bipartitismo e cancellasse ogni soggetto terzo. Renzi ha esasperato tale visione, caricandola altresì di una smodata personalizzazione, di una contiguità all’establishment e di uno spirito divisivo ignoto a chi lo ha preceduto. Ma, va detto, le premesse erano già state poste.

Se e quando mai il PD si deciderà a fare un congresso (sempre troppo tardi), ad applicarsi a una riflessione critica e autocritica corale e non schiacciata sulla congiuntura dovranno essere tanti.

Non solo Renzi e i suoi fedeli, ma anche quelli che, dentro il PD e nei suoi dintorni, per ignavia o opportunismo, si sono allineati, nonché alla legione di opinionisti che lo hanno celebrato acriticamente. Era necessario attendere di assistere all’imbarazzante spettacolo del leader della sinistra (?) ridotto a uomo tv che preme alla porta di Mediaset affidandosi al manager della showgirl Belen Rodriguez?