La vigilia della finale di Supercoppa tra Juve e Milan a Gedda è stata segnata dalla retorica buonista dei vertici del calcio italiano volta a giustificare un match che non si sarebbe mai dovuto disputare in un paese come l’Arabia saudita dove le violazioni dei diritti umani e dei diritti delle donne sono all’ordine del giorno.

«Il calcio non è politica, ma un veicolo culturale che può abbattere le barriere tra i popoli», ha detto in un’intervista il presidente della Federcalcio, Gabriele Gravina, ripetendo le solite banalità sul calcio che fa del bene sempre e comunque. Alle tasche di calciatori spesso già ricchi e alle casse dei grandi club senza alcun dubbio. Non al rispetto dei diritti dei sauditi perseguitati dal regime.

Gravina, sospettiamo, non ha letto l’articolo di Alia al-Hathloul, pubblicato dal New York Times, nel quale chiede a Mike Pompeo di intervenire in aiuto della sorella, Loujain, attivista 29enne dei diritti delle donne detenuta da mesi senza processo e di tutti gli altri prigionieri di coscienza in Arabia saudita.

Nella sua visita a Riyadh il segretario di Stato Usa da un lato ha chiesto che siano puniti tutti i responsabili del brutale assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, avvenuto il 2 ottobre nel consolato saudita a Istanbul, e dall’altro ha dato pieno appoggio a Mohammed bin Salman (MbS), l’erede al trono saudita indicato da più parti, inclusa la Cia, come il mandante di quell’uccisione.

La ragion di stato prevale sui diritti dell’individuo (e dei popoli), e ciò vale anche per i milioni di dollari sauditi che entreranno nelle casse di Juve e Milan. Alia al-Hathloul nel suo racconto descrive come la sorella abbia subito gravi abusi in carcere, di come sia stata minacciata di stupro e di come l’ex consigliere reale Saud al-Qahtani, fino a qualche settimana fa braccio destro di MbS, si sia divertito mentre veniva torturata. Del marito di Loujain, l’attore Fahad al Butairi, non si sa più nulla da quando è stato arrestato.

Amnesty International ricorda le 12 attiviste saudite fatte arrestare dal rampollo reale MbS e detenute nel carcere di massima sicurezza di Dhahban. Gravina, il fenomeno Ronaldo e il giovane portiere della nazionale Donnarumma potrebbero apprendere qualcosa di più sul regno dei Saud, leggendo il racconto di Rahaf al Qunun, la 18enne saudita fuggita dal suo paese e accolta tre giorni fa dal Canada. La ragazza ha riferito alla tv pubblica inglese della sua condizione di «schiava» della famiglia e della sua paura dei genitori: «Se mi avessero trovata, sarei scomparsa».

Ha raccontato della «violenza fisica» che subiva regolarmente dal fratello e da sua madre. «Noi, donne saudite, siamo trattate come schiavi. Molte persone mi odiano, sia che vengano dalla mia famiglia o dall’Arabia saudita in generale». In Arabia saudita, stretta alleata dell’Occidente, le donne sono soggette per tutta la vita alla tutela di un uomo (padre, marito, fratello) che esercita su di loro la patria podestà.

Ma i campioni milionari di Juve e Milan forse hanno più sensibilità per i buoni affari che per i diritti umani, magari per il mega progetto Amaala messo in campo da MbS per la costruzione di un lussuoso e immenso resort turistico sulla costa saudita del Mar Rosso che fa tremare gli ambientalisti locali e internazionali: 2.500 camere d’albergo e 700 ville di lusso sono solo una parte del progetto che dovrebbe essere completato nel 2028 nonostante il boicottaggio annunciato dagli investitori internazionali dopo l’uccisione di Khashoggi.

Tra qualche mese del giornalista, fatto a pezzi dai suoi assassini giunti apposta da Riyadh, non si parlerà più. Avranno il sopravvento la ragion di stato a cui si appella Mike Pompeo e il disinteresse per quanto accade in Arabia saudita mostrato anche dal calcio italiano.