Baboucar, Ousman, Yaya e Robert, sono quattro richiedenti asilo africani, del Gambia, Nigeria, Costa d’Avorio, quattro dei tanti che camminano nomadi per le nostre piccole o grandi città, si spostano a piedi flessuosi, o inforcano biciclette, giovani che puoi incontrare ogni giorno in attesa pazienti – e spesso sorridenti – alle fermate degli autobus.

DI LORO, del passato e dei sogni, i drammi e le gioie, le crisi, i viaggi disperati nel Mediterraneo, non si sa niente. Finiti gli sbarchi, superate le frontiere, arrivati a destinazione, entrati nell’oblio della normalità, è come se fossero cancellati, tornando all’onore delle cronache solo quando qualcuno li aggredisce, delinquono, si tolgono la vita, o sono sfruttati da spietati caporali nei luoghi di lavoro. Adesso, questi invisibili hanno il loro romanzo che prende il nome da uno di loro, E Baboucar guidava la fila (minimum fax, pp. 165, euro 15), scritto da Giovanni Dozzini, che colma un vuoto, innanzitutto, e li racconta nel modo più onesto. La prima cosa che colpisce, infatti, di questo libro, è la narrazione ondivaga, la mescolanza degli incontri, gli intrecci e i deragliamenti improvvisi della vita vera, ben diversi dalle convenzioni romanzesche, la precarietà della condizione umana di chi adesso e da sempre fugge da guerre, persecuzioni, violenze e ne porta i segni sulla pelle.

Qui tutto scorre con naturalezza in un flusso che mette insieme scrittura e vita, ritmi della narrazione e quelli di esistenze colte nella realtà provvisoria e sospesa di due giorni che sembrano infiniti, vissuti in una provincia italiana lunare e lirica, fatta di paesaggi che vanno dall’armoniosa campagna umbra al mare Adriatico marchigiano, fino alla lugubre raffineria di petrolio dell’Api di Falconara Marittima, dove i quattro amici arriveranno con i treni delle ferrovie locali.

COME MOLTE NARRAZIONI realiste, il romanzo è in presa diretta, i movimenti dei personaggi sono scanditi attraverso dialoghi serrati, coniati nel parlato della quotidianità, spesso volutamente approssimativo e ibridato, con un forte effetto di verità frutto di un accurato lavoro di rielaborazione e invenzione. Catapultati in questa terrestrità di nessuno, fatta di oggetti, strade, stazioni, ma anche dentro il mondo virtuale degli smartphone che li collega al Villaggio globale facendoli sentire meno stranieri, i personaggi del libro vanno, questa è la loro prerogativa, ingannando il tempo, parlando con la gente, soprattutto dei loro paesi di origine, delle guerre africane, dell’Isis, e s’imbattono in carabinieri, pescatori, bagnanti, e ogni incontro con l’altro è una rivelazione, un conflitto latente o che si scatena, ma i conflitti sono anche interni al gruppo, e interiori. Niente di clamoroso, nessun colpo di scena, drammatizzazione o deragliamento nell’acme della finzione romanzesca ma solo il referto fedele del loro quotidiano, l’epica minore raccontata con rigore e realismo.

QUELLO DI DOZZINI è romanzo della realtà che sembra ispirato dai reportage di Alessandro Leogrande, l’autore di quel piccolo classico che è La frontiera, un Aspettando Godot contemporaneo, scandito in un tempo che è quello dell’Africa che, come scriveva Kapuscinski: «è di una categoria molto più flessibile, aperta, elastica, soggettiva. È l’uomo che influisce sulla forma, sul corso e sul ritmo del tempo. Il tempo è addirittura qualcosa che l’uomo può creare».
Come il palinsesto esistenziale che creano insieme i personaggi di questo romanzo, camminando, camminando e spostandosi con speranza, paura, e un pizzico di nostalgia, in una terra straniera e verso l’ignoto futuro.