Fino a quando il Ministro degli Interni austriaco, smentendo le proprie stesse dichiarazioni, ha affermato di non avere motivi per ritenere che il terrorista non abbia agito da solo, Vienna ha vissuto in una condizione di lockdown dentro un lockdown, con chiusura dello spazio pubblico, stretto fra lo spettro del terrore e quello del contagio. La polizia arresta i contatti dell’attentatore, cercando il gruppo di supporto e scavando nel suo passato, peraltro più che noto tanto alla giustizia quanto all’intelligence. Più di un testimone sulla centralissima Seitenstettengasse ha convintamente raccontato di aver visto due uomini correre e aprire il fuoco sulla folla e sulle vetrine, ma degli altri componenti del presunto commando non si suppone più traccia.

Il ventenne Kujtim Fejzulai – che inizialmente la stampa ha presentato come Kurtin S. e che l’Isis definisce Abu Dujan al-Albani – aveva già aveva conosciuto il carcere, intercettato mentre cercava di recarsi in combattere in Siria, ma è riuscito ad eludere i radar della sorveglianza. Armato di tutto punto (armi e munizioni proverrebbero dalla Slovacchia, come già quelle che i fratelli Kouachi usarono per il massacro a Charlie Hebdo), ha postato la propria immagine su Instagram, e si è infilato nei vicoli, puntando ad imitare le gesta nefaste dei miliziani del Califfato sugli avventori dei café parigini: ovvero di compiere una strage fra i viennesi che, nel clima insolitamente mite che precedeva l’inizio del confinamento sanitario, consumavano gli ultimi bicchieri all’aperto.

Otto minuti dopo, dopo aver ferito a morte a quattro persone, veniva abbattuto da un agente, e iniziava una lunga, gigantesca caccia all’uomo in tutta la città, con perquisizioni, cecchini appostati sui tetti, massiccio cordone di sicurezza e controlli ai confini di stato. Il riserbo delle indagini e le notizie contraddittorie non diradano le ombre sulla dinamica degli eventi, a partire dai sei luoghi del centro che secondo le versioni ufficiali sarebbero stati coinvolti in così poco tempo da un singolo attentatore a piedi. Mentre la sinistra austriaca contesta il palcoscenico mediatico regalato al terrorista, criticando le modalità con cui viene sottolineata l’origine albano-macedone della sua famiglia, di cui non risulta il credo islamista, l’estrema destra neofascista annuncia per giovedì la propria presenza in manifestazione sui luoghi dell’attacco.

Ed ecco dunque, con l’arrivo della rivendicazione di Daesh, l’Europa messa davanti alle sue paure, in un paese che finora era stato risparmiato dalla furia omicida jihadista: un clima di emergenza sanitaria, uno spazio pubblico che si appresta alla chiusura in cui si incunea un terrorista di fatto home-grown, immigrato di seconda generazione, omicida a sangue freddo con ferocia paramilitare. E poi le versioni dei fatti contradditorie, il coro dei «non ci piegheremo al loro odio».

Non sappiamo, oggi, quale grado di direzione i comandi di Daesh possa aver esercitato o meno sul gruppo che ha armato l’attentatore di Vienna. Se anche risultasse confermato che il terrorista ha colpito da solo, le scene di terrore della notte di Vienna costituiscono un salto di qualità rispetto alla serie di attacchi che ha di nuovo insanguinato la Francia a partire da fine settembre, non fosse altro per la presenza di armi d’assalto, che in Europa non si vedevano in azione da parecchio tempo. Si tratta di un attacco che sembra collocarsi più sul piano dimostrativo dell’istigazione, che non su quello della reazione e della vendetta per il «dileggio del Profeta».

Molto meno un «gesto emulativo» che non un gesto pianificato che comunica un «si può ancora fare» e dunque mira ad essere emulato. Rispetto alla carneficina di Vienna, gli omicidi di Parigi e Nizza si distinguono infatti per fanatismo ideologico nel tentativo di cercare un raccordo estemporaneo con il furore montante del mondo islamista contro la Francia di Emmanuel Macron, Francia che peraltro – dopo gli scontri occorsi a Lione e aventi per protagonisti i nazionalisti turco-azeri – ieri ha annunciato la messa al bando della destra nazionalista turca dei Lupi Grigi.

Sullo sfondo, i 22 studenti uccisi da Daesh ieri all’università di Kabul, di cui i media non si sono quasi accorti – ma non la Nato che stavolta con il segretario Stoltenberg ha singolarmente condannato entrambi insieme; e sinistri segnali di riorganizzazione delle milizie del califfato, attivamente lanciate contro i rivali di al Qaida. Ancora più sullo sfondo, lontano da ipotesi cospiratorie, riecheggiano le parole irresponsabili e incendiarie del presidente turco Erdogan, sempre più bramoso di mettersi alla testa di «tutti i musulmani», sin da quando nel marzo del 2017 dichiarò testualmente che «se l’Europa continua lungo questa strada, nessun cittadino europeo da nessuna parte del mondo potrà camminare in sicurezza per strada».

È infatti nella comunicazione una delle chiavi per comprendere ciò che sta avvenendo: i pozzi avvelenati dello scontro retorico, le nervature sempre più evidenti della dimensione ideologica, le ipocrisie delle politiche estere, la marginalità sociale nichilisticamente e narcisisticamente travestita da Rambo pronto a farsi riprendere da un’intera città che lo vede sparare da dietro le finestre. E – su tutto – la confusione mediatica, nell’attesa che attorno alla Casa bianca si decidano le sorti del negazionista-in-capo, e le linee di attesa della politica internazio