Dal giovane borghese che nell’anteguerra era abituato alla morbidezza delle grandes vacances (mare e tennis a Riccione, come nel romanzo Gli occhiali d’oro, del ‘58) ci si aspetterebbe disorientamento al cospetto delle prime villeggiature di massa che caratterizzano gli anni fra la Ricostruzione e il Boom economico. Ma per Giorgio Bassani sono i tempi in cui viene in luce la vocazione narrativa a lungo mantenuta sottotraccia, perché esordisce con le Cinque storie ferraresi ormai quarantenne, mentre stenta a liberarsi del suo apprendistato tra l’insegnamento, il lavoro di sceneggiatore cinematografico, la collaborazione ai giornali: le ferie, si potrebbe anche dire, per lui non esistono se non nel recupero della memoria o nei trip che fatalmente lo riportano a Ferrara.

Chi percorra infatti il rettifilo di Corso Ercole I d’Este, dove il selciato prende un colore luminoso di sabbia mista a sale, presto si rende conto che tra quei severi edifici di età rinascimentale non si apre alcun giardino e meno che mai lo straordinario hortus conclusus che dà il titolo al libro eponimo di Bassani, per l’appunto Il giardino dei Finzi-Contini, l’opera baricentrica del ciclo che fra il ’74 e il 1980, legando il romanzo di formazione a una vera e propria Opera/Mondo, prenderà il nome di Romanzo di Ferrara. Eppure Bassani, ligio alla lezione dei maestri e su tutti di Manzoni e Thomas Mann, paventa l’invenzione letteraria che non sia vincolata alla tridimensionalità dell’esistente, teme che non si dia verità in assenza di verosimiglianza: insomma, e a dispetto dello stereotipo che a lungo lo ha bollato da nostalgico e inerme ritrattista di atmosfere, egli è uno scrittore legato prima alla storia, al suo peso obiettivo e documentario, che non alla svagata liceità della memoria.

Ultime illusioni di normalità
Peraltro, l’immagine del giardino è per lui un topos troppo rilevante per sortire dalla nuda invenzione: vi associa il senso pieno della vita ricomposta nel segno della eleganza e della bellezza oltre i conflitti e le disgrazie del Mondo (quasi fosse un eterno succedaneo del Roman de la Rose) e d’altronde essa costruisce il set del miraggio, classica oasi nel deserto, di cui è preda colui che intanto sta vivendo una duplice esclusione: chi infatti nel romanzo dice «io» (voce di evidente derivazione autobiografica) viene di colpo bandito dalla comunità dei vivi in quanto ebreo vitando, ma nello stesso tempo deve incassare il rifiuto, netto e inderogabile, da parte di Micòl Finzi-Contini, la silfide di cui è perdutamente innamorato, una specie di Dafne dileguante dai capelli color rame, precoce lettrice di Emily Dickinson e accanita giocatrice di tennis.

Nel romanzo, chiuso da un’unica campata fra il ’29 e il ’39, Micòl, insieme con suo fratello Alberto (invece così dolce, remissivo, valetudinario), è la vestale del luogo dove si ritrovano per vivere un’ultima illusione di normalità i giovani borghesi suoi amici colpiti dal fascismo con le leggi razziali, cioè il campo da tennis che sorge all’ingresso del giardino e lo separa dalla magione avita dei Finzi-Contini. Bassani sceglie per il parco la denominazione di Barchetto del Duca e per la casa di Magna Domus fornendo una descrizione solo ellittica e generica della seconda ma sul primo profondendosi in particolari: «Spaziava per quasi dieci ettari fin sotto la Mura degli Angeli, da una parte, e fino alla barriera di Porta San Benedetto, dall’altra gli alberi di grosso fusto, tigli, olmi, faggi, pioppi, platani, ippocastani, pini, abeti, larici, cedri del Libano, cipressi, querce, lecci, e persino palme e eucalipti».

In realtà, quel giardino sta a centinaia di chilometri di distanza e se Bassani, con una licenza poetica, ha potuto trasferirlo nel centro di Ferrara è perché lo aveva frequentato e amato come il prediletto fra i suoi luoghi di villeggiatura: si tratta del Giardino di Ninfa, tra Cisterna di Latina e Sermoneta, parte integrante delle proprietà di Roffredo Caetani principe di Bassiano e della principessa Marguerite di cui spesso lo scrittore era stato ospite.

Un giardino all’inglese, ricchissimo di acque e di circa mille varietà di piante, risalente al XVI secolo (e dei medesimi Caetani del terribile papa Bonifacio VIII), restaurato a partire dal 1921 dalla famiglia di Roffredo, un musicista di estri wagneriani, e Marguerite, una bostoniana collezionista d’arte e mecenate, due «squisiti ospiti» ricorda la figlia dello scrittore Paola Bassani (nel volume di ricordi Se avessi una piccola casa mia, «persone di grande eleganza, in tutto degne di quella tenuta leggendaria attraversata da un corso d’acqua e colma di piante rare, di boschetti esotici (…). Dentro Ferrara c’è paradossalmente il giardino di Ninfa, ma dentro il giardino di Ninfa c’è idealmente un campo da tennis».

Lei, la principessa Marguerite nata Chapin, somigliava a una americana à la Henry James che si fosse innamorata una volta per sempre dell’Europa: donna bellissima, di grande cultura e di una intelligenza priva di snobismo, charmante senza il culto della mondanità, Marguerite già a Parigi negli anni ruggenti aveva fondato una rivista plurilingue, «Commerce» (del 1924, il titolo allude beninteso al «commercio internazionale delle idee», come voleva Madame de Staël), quindi, trasferitasi in Italia col marito, aveva fondato e diretto tra il ’47 e il ’59 una semestrale che prendeva l’insegna dall’indirizzo di Palazzo Caetani a Roma, Botteghe Oscure, e usciva in corposi fascicoli, antologie di prose e versi editi non soltanto in italiano ma anche, e contemporaneamente, in inglese, tedesco, francese e spagnolo.

Della rivista Bassani è il capo redattore, di fatto l’esclusivo interlocutore di Marguerite, e si occupa degli autori italiani preludendo, di fatto, al suo lavoro di talent scouting da Feltrinelli dove dirigerà, e giusto tra il 1959 e il ’62 nell’imminenza dei Finzi-Contini, la prestigiosa e cosmopolita collana «Biblioteca di Letteratura» che conta da un lato opere di caratura internazionale quali L’Aleph, L’età dell’innocenza o Il dottor Zivago e dall’altro autori giovani al loro primo o secondo libro come Giovanni Testori, Alberto Arbasino, Roberto Roversi, Paolo Volponi, per tacere l’esordiente postumo a nome Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Più volte Bassani ricorderà con affetto la figura della principessa, sottolineandone la tempra e l’assenza di artificio come l’ironia e la «severa generosità», tanto da farci immaginare che nel personaggio di Micòl si depositi anche una traccia di lei, specie nel profilo altero e negli umori talora imprevedibili; più volte Bassani accetterà il suo invito e sarà ospite villeggiante nel piccolo paradiso di Ninfa (che tuttavia, sia detto per inciso, oggi è un’Oasi Wwf la cui area arriva a circa 1.800 ettari) come attesta un primo ricordo in Per il parco di Ninfa (nella raccolta poetica Te luci ante, ’47) in cui la definisce «distante/ isola del passato, là, che chiama, che invita!» e come infine ribadisce un passo di Ninfa rivisitata (in Epitaffio) quando un’ombra improvvisa, un incombente senso di morte la connette al profilo di un’ultima donna «abnorme e stupenda/ silente e/ minacciosa».

Una allegoria della scrittura
Nel romanzo, il protagonista riconosce l’emblema di quel giardino nel frangente drammatico che incrocia Storia e Natura, una intersezione in cui si fondono la bellezza e la naturalezza del mondo ricomposte e accarezzate dalla stessa umanità che in un attimo potrebbe annientarle, come è detto mestamente quando il narratore si sorprende ad ammirare quegli «antichi alberi, tigli, olmi, platani, castagni, che di lì a una dozzina d’anni, nel gelido inverno di Stalingrado, sarebbero stati sacrificati per farne legna da stufe, ma che nel ‘29 levavano ancora ben alti al di sopra dei bastioni cittadini i loro grandi ombrelli di foglie». Bassani, che riscriveva a oltranza le sue pagine con l’accanimento che Manzoni aveva definito da eterno lavoro, a Ninfa (dove c’erano stanze sempre disponibili per gli ospiti nel palazzetto del Comune medievale) si sentiva in un luogo propiziatorio e infatti lavorò alla redazione di parte del testo e alla correzione delle prime bozze dei Finzi-Contini alternandovi soggiorni solitari all’Hôtel Le Najadi sulla spiaggia di Santa Marinella.

Nel suo Eden perfettamente umanizzato, in fondo Ninfa è per lui l’allegoria della scrittura stessa («il piccolo segregato universo da me inventato», diceva), un prezioso ordito da accudire frase per frase e parola per parola, con ossessione flaubertiana, mentre i periodi si innestano e le parentesi si allargano alla pari di vaste radure la cui luce comunque soccorre chi non teme di inoltrarsi nel folto, a rischio di ferirsi e cadere.