Nei mesi più terribili della prima guerra mondiale, quando l’emergenza sanitaria al fronte si era ormai fatta insostenibile, molti neolaureati in medicina furono costretti a sostituire negli ospedali di provincia i colleghi più anziani mobilitati in prima linea. Tra loro c’era anche il ventiquattrenne Michael Bulgakov, che nell’aprile 1916 dalle aule universitarie si ritrovò improvvisamente catapultato nel lazzaretto di Nikol’skoe, località sperduta e pressoché irraggiungibile, per gran parte dell’anno, causa l’impraticabilità delle strade. «Addio, addio per molto tempo, teatro Bol’šoj, rosso e dorato, Mosca, vetrine… ah, addio!»

Con l’abituale umorismo, ma anche affidandosi a toni ben più drammatici del consueto, lo scrittore kieviano rielaborò quella vicenda in sette brevi racconti pubblicati tra il 1925 e il 1926 e ora riproposti da Neri Pozza con il titolo Memorie di un giovane medico (pp. 192, € 15,00) in una nuova traduzione di Serena Prina, che include nel corpus «ospedaliero» del giovane Bulgakov anche Morfina, l’angoscioso (e ampiamente autobiografico) diario di un medico che a poco a poco si lascia scivolare nella dipendenza da oppiacei. Una integrazione preziosa per ricostruire il gioco sempre più complesso di rispecchiamenti e trasfigurazioni in cui lo scrittore attirò nel corso degli anni Venti il suo alter ego in camice bianco.

Sua incarnazione iniziale è l’anonimo dottore che, da un giorno all’altro, si ritrova a capo dell’ospedale di N. Peccato che abbia conseguito la laurea da appena due mesi e che la formazione libresca ricevuta all’università non gli permetta di fronteggiare con sufficiente autorevolezza i casi disperati che gli si presentano. Tra amputazioni e tracheotomie descritte con dovizia di particolari, la controfigura di Bulgakov finirà tuttavia per acquisire col tempo una certa fiducia, così da tacitare la sensazione di inadeguatezza che lo perseguitava all’arrivo e perfino di non far rimpiangere il suo leggendario predecessore, il dottor Leopol’d Leopol’dovic.

Tutt’altre tonalità prevalgono in Morfina, dove il porte-parole dell’autore, il dottor Bomgard, non riuscirà a strappare all’autodistruzione il collega ed ex compagno di studi Poljakov, cui Bulgakov attribuisce più di un tratto della propria biografia. Ancora più cupa è l’atmosfera in Io ho ucciso, centrato sulla figura del dottor Jasvin che, dissotterrando un episodio «inconfessabile» del suo passato accaduto su uno sfondo ben noto all’autore (la Kiev post-rivoluzionaria), dimostra come in tempo di guerra civile, i confini tra salvezza e perdizione, compassione e crudeltà diventino alquanto labili.