Anche quest’anno Locarno ha dato una lezione a molti festival, puntando su una retrospettiva non ovvia, che si è rivelata la punta dell’edizione insieme al film di Bressane. Infatti dedicare una monografia così ampia al cinema della Repubblica Federale Tedesca dal 1949 al 1963 appare subito poco ovvio, anche più che dedicarne una alla Titanus come tre anni fa. Le due però hanno trovato una non programmata coincidenza cronologica, come rileva Roberto Turigliatto che supervisiona le retrospettive locarnesi (curando questa insieme all’ideatore Olaf Möller). Permettono insieme quindi di interrogarci anche sul passaggio da De Gasperi al centrosinistra in un caso, e sul perdurare dell’era Konrad Adenauer dall’altra. Soprattutto consentono di far riemergere la forza del cinema anni ’50 (con sconfinamenti nei ’40 e nei ’60) rispetto alle «rivoluzioni» che precedono e seguono (Resistenza e crollo del Terzo Reich; e poi le ribellioni anni ’60).
Si può dire che l’ideatore-curatore ha vinto in pieno la sua scommessa: altro che cinema «riconciliato» e piatto come si pensava, è stato un cinema senza certezze persino più del successivo. Su ciò siamo d’altronde convinti anche per il coevo cinema italiano, ma tantooiù ci colpisce in quello tedesco-federale che aveva cattiva fama sia in patria che fuori (forse solo il cinema inglese è stato oggetto di maggior disprezzo, anch’esso poco motivato, mentre del francese pre- nouvelle vague si è ormai capito che il suo «superamento» generazionale è stato tattico).

Segnali da Locarno

Tra i film visti a Locarno ne segnalerei alcuni che indicano sconfinamenti anche nazionali e geografici. La commedia musicale con trucchi disneyani di Kurt Hoffmann Das Spukschloss im Spessart è scatenata come i migliori Carlo Ludovico Bragaglia (altra banalità smentita: il riso dei tedeschi è di grana grossa), con una Liselotte Pulver (che già ammirammo in un grande Sirk) eroticissima, e alla fine un arrivo nella capitale Bonn che demolisce ogni retorica statuale. Abbiamo ritrovato registi già noti per l’attività in Italia (come Tourjansky) o per coproduzioni italiane (La rossa di Helmut Käutner è uno dei più bei film su Venezia). Nel film di Wolfgang Staudte Kirmes, che consideriamo tra i più nicht versöhnt (non riconciliati come da titolo-programma di Straub-Huillet) compare una Juliette Mayniel che con la sua stessa irruzione di corpo straniero s’impossessa del film più che in Chabrol (regista che, incidentalmente, ameremmo intrecciare con molto cinema tedesco).
Un tocco da maestro nel programma è stato l’inserimento di due film di autori polacchi in coproduzioni tedesche, che a noi sembrano sempre più i grandi cineasti polacchi con (o dopo) Munk, cioè il mirabilmente contorto, fino all’automutilazione, Aleksander Ford; e la Wanda Jakubowska con il suo cinema di mente e insieme pulsionale: sono i cineasti che hanno praticato tutta la tensione tra comunismo e polacchitudine, sapendola (lo scopriamo qui) buttarla in faccia all’Occidente. Speriamo che una retrospettiva completa li onori al più presto. Insieme a questi film centrifughi si sono visti alcuni capolavori di autori prettamente tedeschi: Gerhard Lamprecht, il cui ultimo film conferma che in Germania c’è stato anche nel cinema il marxismo più sentito. Siamo su un altro versante con l’Heimat-film di Hans-Heinz König, il cui Rosen blühen auf dem Heidegrab è stato la massima rivelazione, film di un paesaggio postromantico e transheideggeriano, in cui il sacrificio-stupro della protagonista (sublime Ruth Niehaus come nel Czap tedesco-jugoslavo) sta tra Fährmann Maria di Wysbar e Cielo sulla palude di Genina, rivelandosi dreyeriano quanto Ordet con il ritorno in vita finale.
La rassegna ha infine confermato le massime grandezze di Pabst (un solo film perché gli altri secondo il curatore sono piuttosto austriaci), Harald Braun e Frank Wysbar appunto.
Sono anche i registi che meglio possono collegare la retrospettiva di Locarno con una delle sue tappe di circuitazione, al festival «I mille occhi» di Trieste: dove Möller cura da anni anche programmi tedeschi, che avevano già incluso una decina dei film di Locarno.

Film tedeschi a Trieste

Quest’anno invece il curatore ha ideato per Trieste un programma originale, che include un solo film tra quelli di Locarno (Der Arzt von Stalingrad di Radványi) e ne varia la dimensione apolide, in un sestetto di film di migranti, esuli, rifugiati di guerra, che per lo spirito di decostruzione retrospettiva dei Mille occhi sono esemplari, sovrapponendo su questi temi in epoca Adenauer le odierne risposte merkeliane sulle fughe che implodono la comunità europea.
Insieme all’ultimo film del ceco Machaty vi si vedranno due dittici dei citati grandi Braun e Wysbar.
Del primo Solange Du da bist in cui il set di un film diventa luogo che travolge le identità, e Herz der Welt, grande film sulla vigilia della prima guerra mondiale ispirato a Bertha von Suttner che amò Alfred Nobel e dal cui Giù le armi! Dreyer trasse una delle sue prime sceneggiature. Di Wysbar saranno invece a Trieste (dopo che l’anno scorso si videro alcuni capolavori anni ’30) il catastrofico Nacht fiel über Gotenhafen che stupidamente fu ritenuto riconciliato col passato nazista mentre ne è la persistente visione catastrofica, e l’ultimo film diretto dal regista per il cinema, Durchbruch Lok 234, racconto di una fuga oltre il muro di Berlino che segna una delle più belle circolarità con quel momento del prenazismo in cui il cinema di Wysbar iniziò, diventando poi una delle opere cinematografiche più intimamente sovversive: ci riferiamo però nel collegamento al nazista per eccellenza Hitlerjunge Queux di Steinhoff, dove il rapporto del bambino ribelle col padre, in entrambi i casi ubriaco di comunismo e di alcool, fa rima: nel film di Steinhoff il figlio approda al nazismo, nel Wysbar del 1963 lo spinge alla fuga oltre il muro.
In conclusione e in breve, l’ampia, illuminante retrospettiva di Locarno trova nel prolungamento di Trieste un piccolo ma appassionante tassello.