«Io – riflette a un certo punto Riba, protagonista assoluto di quel grande romanzo che è Dublinesque di Enrique Vila-Matas – non voglio essere scritto». L’ex editore, ex bevitore ed ex cacciatore di introvabili autori geniali che ha messo in archivio se stesso per dare alla sua vita la forma dei romanzi che ha amato, e parte per Dublino sulle tracce di Joyce, di Beckett e dei loro eroi, ha avuto improvvisamente l’intuizione destinata a cambiare la sua esistenza. Seguendo un pensiero di Malte Laurids Brigge ha capito che la sua unica possibilità di sopravvivere è sfuggire alla letteratura, a quello che Rilke chiamava «il rigor mortis della pagina immutabile», e ha deciso perciò di compiere un esperimento spericolato: restituire la letteratura alla vita e celebrare «la fine dell’età di Gutenberg» nella più letteraria delle città europee.

Ma la letteratura, come la sua vita precedente, non si lascia mettere da parte facilmente; così avviene a Riba di imbattersi ovunque in ricordi del passato e fantasmi poetici, di vedersi comparire davanti, all’improvviso, il giovane Beckett e di ripiombare senza riuscire a impedirlo nel più letterario dei vizi, concludendo il suo matrimonio con una monumentale bevuta.

Immagini anfibile
Una sorta di pregiudizio rilkiano ha spesso accompagnato anche l’interpretazione della narrativa di Kafka. Le grandiose trasformazioni epiche cui lo scrittore praghese ha sottoposto le vicende della sua vita hanno suggerito a lungo l’idea che l’inimitabilità della sua scrittura derivasse dalla cancellazione ad essa intrinseca del confine fra vita e poesia, e dal sacrificio della prima sull’altare della seconda. Ma Kafka è piuttosto il primo grande scrittore della «fine dell’età di Gutenberg» e del congedo dall’illusione romantica di poter sublimare in una pagina perfetta l’inanità dell’esistenza reale: nei suoi racconti – ma anche nei suoi diari e nelle sue lettere – non è la vita a offrirsi alla poesia, ma la poesia a pervadere la vita lungo vie misteriose. Non si tratta semplicemente di letterarizzare l’esistenza, ma di trasformare la vita lasciando che la poesia le conferisca forma perdendo la sua statica bellezza. Sempre, in Kafka, la vita è così profondamente e intimamente percorsa dalle parole da creare immagini anfibie, né reali né inventate, ma uniche perché contemporaneamente reali e inventate.
Le Lettere a Milena, che riappaiono ora nell’efficace traduzione di Isabella Bellingacci e per la raffinatissima cura di Guido Massino e Claudia Sonino (Giuntina, pp. 440, e 20,00) sono, nel loro insieme, un capolavoro e un esempio perfetto di questa trasfigurazione della letteratura ad opera della vita. Kafka e la sua prima traduttrice – sposata con Ernst Pollak e di tredici anni più giovane – si videro, nella realtà, cinque volte e la loro relazione durò in tutto cinque giorni: dal 29 giugno al 4 luglio 1920. Già prima, però, dopo l’inaugurale fuggevole incontro, i due avevano cominciato un carteggio la cui parte superstite – quella di Kafka – sviluppa un lungo romanzo sentimentale, erotico e intellettuale dai contorni ancora largamente oscuri.

Dal tedesco al ceco
In apparenza, tutto è chiaro. Kafka – come aveva già fatto con Felice Bauer – usa le lettere come cornice di un’autorappresentazione destinata a catturare la sua interlocutrice, in cui le informazioni su di sé e le premurose domande rivolte a Milena si alternano creando già sulla pagina l’incontro che preparano e che, poi, per parecchio tempo ancora, commenteranno. In realtà, tutte le lettere sviluppano più o meno chiaramente la storia dell’incontro di due opposti: Milena Jesenská, giovane traduttrice praghese di lingua ceca ma viennese d’adozione, cristiana, sposata non felicemente all’ebreo Pollak, e Franz Kafka scrittore praghese di lingua tedesca, ebreo, celibe e malato, ormai, tanto da sentirsi già vecchio a trentasette anni. L’incontro fra i due può avvenire solo sul piano della diversità che la scrittura e la lingua sottolineano e contrastano. Nelle sue molte lettere Kafka risponde in tedesco a Milena che, probabilmente, gli scrive per lo più in ceco; ma ricorre anche al ceco quando vuole stabilire un contatto più intimo o spiegarsi in modo più chiaro o analizzare attraverso la lingua i pensieri che non possono prendere forma esplicita. Questo esercizio di Kafka con la lingua è l’esatto equivalente di ciò che Milena sta facendo per lui, traducendo il racconto Il fochista e restituendo con la massima fedeltà possibile i suoi pensieri e il suo senso della parola.

Sulla pagina scritta le diversità della vita reale si attenuano e scompaiono. Ma c’è di più. È gran merito, infatti, dell’attenta cura di Guido Massino (che oggi si contende con Andreina Lavagetto il primato fra gli studiosi italiani di Kafka) avere scoperto come le lettere nascondano sottotesti che corrispondono a precisi prototipi letterari: il Dostoevskij delle Notti bianche, ad esempio, ma anche – e soprattutto – un diffuso uso di luoghi e motivi danteschi che segue un preciso disegno narrativo. Nella sua densa prefazione e nelle molte, innovative note del suo commento, Massino ricostruisce infatti, oltre alle sicure e probabili letture dantesche di Kafka, anche il modo in cui «l’ingresso di Milena nella vita di Kafka si configura sul modello del primo incontro nella Vita Nuova e successivamente della discesa di Beatrice in soccorso di Dante smarrito nella selva oscura», e ha documentato in modo assai puntiglioso in che modo Kafka costruisca, lettera per lettera, la sua propria «vita nuova» generata dall’incontro con Milena ovvero, non a caso, con una donna cristiana.

Una colta traduttrice
Nelle lettere Milena, come Beatrice, è «l’Intelletto Agente che collega al divino attraverso le immagini della fantasia ma anche complice di un gioco terreno in cui la vita transita attraverso vari gradi della scrittura». La differenza diventa ragione sufficiente della rinascita e si risolve, attraverso le parole, in una fonte inesauribile di pensieri e idee che seguono e fanno proprio il ritmo dell’esistenza.
Se si segue Massino nella sua lettura delle lettere si vede ciò che le troppe interpretazioni stancamente psicologiche e agiografiche della relazione assai più epistolare che reale fra Kafka e Milena, certamente la più colta e raffinata fra le donne in cui lo scrittore si imbatté nella sua vita, non hanno mai notato.
Si vede, cioè, che anche qui, come nei racconti più grandi di Kafka e nelle sue prose più sperimentali e complesse, la letteratura permea la vita e trasfonde in essa tutta la sua forza plasmatrice, ma senza sovrastarla, senza irrigidirla in un freddo schema intellettuale, piuttosto assecondandone il mutevole fluire. Per questo Kafka non smetterà mai veramente di scrivere a Milena, riaprendo un carteggio già chiuso dopo due anni dalla sua fine.

Nelle pagine dell’epistolario kafkiano la letteratura genera vita e diventa parte indistinguibile della stessa vita che ha generato: entra a far parte dell’esistenza e non può più distinguersene. In tal modo supera i limiti del suo essere «solo» letteratura, conduce le sue immagini e le sue idee nella realtà della relazione ed esiste solo in funzione di essa, come parte di un dialogo in svolgimento che potrebbe non smettere mai di svolgersi.