Un grande lightbox ci immerge in uno spazio sottomarino dai colori squillanti. Due masse confuse si fronteggiano in lontananza, finché riconosciamo due archetipi plurimembri: un’orrorifica Idra e una seducente Dea Kali, che l’affronta brandendo una lama in ogni mano. Il colossale gruppo scultoreo in bronzo (cinque metri d’altezza) è presente in due versioni: in una è ricoperto di incrostazioni calcaree, coralli e madrepore; nell’altra i corpi tortili si presentano invece glamour e sexy come in un fumetto di Moebius. È l’highlight della mostra-kolossal con cui Damien Hirst ha invaso Venezia occupando tanto Punta della Dogana che Palazzo Grassi, Treasures from the Wreck of the Unbelievable (a cura di Elena Geuna, sino al 3 dicembre). Più che una mostra una narrazione multimediale (ai video sottomarini, che nulla hanno da invidiare a James Cameron, si aggiungono un tutorial interattivo e, soprattutto, centinaia di etichette pseudomuseali ciascuna evocativa come un racconto): quella del ricchissimo liberto del I secolo d.C. Amotanius, che raccoglie un’immensa collezione di statue e monili e a bordo del più grande vascello mai costruito, l’Apistos («Incredibile»), la indirizza a un tempio-museo in Africa orientale. Il nuovoantico Titanic però fa naufragio, e il Tesoro dell’Incredibile resta per duemila anni sott’acqua: finché un liberto del nostro tempo, altrettanto facoltoso e desideroso di rivincita, investe tutte le sue risorse nel recupero. Individuato il relitto, per nove anni lavora al restauro dei reperti che oggi vengono esposti al mondo.
Una hybris miliardaria
Tutto finto, ovvio. Tranne l’hybris miliardaria (sessanta milioni di dollari, si vocifera: un costo da blockbuster hollywoodiano) di Damien Hirst. Cioè il «collezionista» un cui busto figura a sua volta in mostra, fra le infinite marche di finzione esibite (dall’incontro impossibile di mitologie distanti come Kali e l’Idra alle citazioni di artisti contemporanei come Jeff Koons o Roberto Cuoghi, sino a presenze pop come Pippo e Topolino o il robottone di Transformers presentato come idolo azteco: tutti fioriti delle solite incrostazioni sottomarine). Quest’apoteosi del finto – che si contrappone al falso per la sua provocatoria evidenza – intende decostruire ogni ipotesi di filologia, attribuzionismo, ordine del discorso museale: in una spettacolarizzazione ludico-nichilista – da ultimo postmodernista sull’isola deserta – dell’azzeramento della storia. Emblematico, all’ingresso di Punta della Dogana, un grande disco calendariale pseudo-azteco. Infatti proprio la cronologia è il vero oggetto della finzione. Non senza intelligenza Hirst si riallaccia così alla discussione in corso sull’anacronismo, sovvertendone però il vettore: da ricerca di una verità preterita dalla storia (come quella di Cuoghi sugli Assiri) all’allestimento di un Luna park esilarante, ma dall’esito a somma zero: consegnandosi, come ha scritto su queste pagine Teresa Macrì, al «godimento futile dell’evento spettacolare». Intanto pare che dai collezionisti (quelli veri) siano già arrivati ordini per milioni: e dunque, come ha scritto Robert Storr sulla «Lettura» del Corriere della Sera, se non nella storia dell’arte l’episodio – come già il teschio di diamanti di For the love of God – è destinato a entrare in quella degli investimenti finanziari (ma una storia dei costi materiali dell’arte sarebbe istruttiva da leggere).
L’exploit s’incastona in una Venezia che ossessivamente s’interroga, in Biennale e fuori, sulle forme della narrazione e sui suoi statuti di verità: da sempre in questione, certo, ben prima della discussione trendy sulla «postverità». Se la piatta mostra centrale curata da Christine Macel è affollata di opere documentarie dai toni risentitamente autenticisti, nei senz’altro più interessanti padiglioni nazionali il discorso si complica. In quello australiano, per esempio, i bellissimi lavori della 56enne Tracey Moffatt mostrano un uso controveritativo dell’anacronismo: se Vigil è un fotomontaggio di stills da Hollywood, in cui lo sguardo inquieto di star come Elizabeth Taylor e Cary Grant incrocia in «impossibili» controcampo le scene dei naufragi dei rifugiati di oggi, con allusivo chiasmo The White Ghosts Sailed in ci mostra un breve video girato nella baia di Sydney che, dilavato e graffiato, si presenta realizzato dagli Aborigeni nel 1788 (!), all’arrivo delle avanguardie europee. Le immagini, all’inizio elegiache, accelerano e si spezzano alludendo a una violenza invisibile ma storicamente documentata. L’uso del finto e dell’anacronismo, con procedimento rovesciato rispetto a quello di Hirst, fa riferimento a una storia vera: dando voce a chi, come gli Aborigeni, non ha potuto trasmettercela.
L’autrice che più poeticamente incarna da noi queste tensioni – tra vero e falso, tra impossibile e necessario, tra passato e futuro – è la quarantenne toscana Moira Ricci. I suoi lavori, stratificati nel tempo, del tempo mettono a tema le anse torpide e i gorghi improvvisi. Risale al 2004, per esempio, 20.12.53-10.08.04, semplice quanto emotivamente lancinante: le foto di famiglia che ritraggono la madre scomparsa sono ritoccate dall’artista con Photoshop, inserendo accanto a lei la propria stessa immagine. Questo effetto Forrest Gump, però, nulla ha di ludico; e se è implicita una certa ironia nei confronti dell’abuso patetizzante che nell’arte di oggi viene fatto delle foto di famiglia, lo struggimento trasmesso ha una sua bizzarra quanto innegabile autenticità.
«Dove il cielo è più vicino», 2014
Lo stesso si può dire di Dove il cielo è più vicino, un lavoro iniziato nel 2014 che ora si trova esposto nei Chiostri di San Domenico a Reggio Emilia (sino al 9 luglio, nell’ambito del Festival Fotografia Europea, curato da Elio Grazioli e Walter Guadagnini col titolo Mappe del tempo. Memoria, archivi, futuro): all’inizio del percorso vediamo dall’alto, in una lunga e ipnotica ripresa realizzata da un drone, un doppio cerchio di fuoco divorare un campo arato; alla fine un altro video ci mostra, accelerandolo in un’ora, il lavoro di un gruppo di persone – il padre e altri famigliari dell’artista – che, a partire da una vecchia trebbia, costruiscono un’astronave, improbabile come le prime rudimentali macchine volanti nei filmati d’inizio Novecento. In una serie di grandi pannelli sono infine ritratti a figura intera i contadini che hanno partecipato all’impresa, e che guardano verso l’alto con espressione indefinibile: un misto di attesa fiduciosa e inquietudine sottile, come pre-elaborando la nostalgia di un futuro dal quale si troveranno esclusi. Come in altri lavori «narrativi» di Ricci (penso alle «leggende rurali» esposte all’ultima Quadriennale di Roma), non manca un documento (o pseudo-tale) che parrebbe spiegare l’annoso mistero dei Crop circles – quelli che nelle campagne vengono attribuiti alle astronavi aliene –: un pamphlet seicentesco sul Mowing devil dell’Hartfordshire, il demone colla falce che si sostituisce ai contadini procedendo in circolo.
Moira Ricci annoda così una riflessione antropologica su costumi e leggende della propria comunità d’origine, nel maremmano, a un discorso di nuovo pseudo-autobiografico e a una non meno commovente narrazione fantascientifica a ritroso (un po’ come quella che, nel magnifico inizio in Interstellar di Christopher Nolan, mescolava suggestioni faulkneriane a ipotesi futuribili). I paesaggi rurali si fanno scenario di uno struggimento da Streben romantico, di cui ricordo l’eguale solo nell’indimenticabile Gattaca di Andrew Niccol. La memoria di un futuro irraggiungibile equivale sempre, per la razza di chi rimane a terra, al venire trafitti dal raggio laser della nostalgia