A voce alta. E non solo dalla panchina. È l’intreccio particolare tra politica e sport, con gli allenatori, i manager che sono divenuti megafoni mediatici del dissenso, uscendo dalla comfort zone che di solito incasella gli sportivi in personaggi senza nessun afflato sociale o politico. Pep Guardiola, qualche giorno fa si è visto perquisire l’aereo privato dalla Guardia Civil che credeva portasse a bordo l’ex presidente della Catalogna, Carles Puigdemont, in esilio in Belgio e su cui pende un mandato di arresto in territorio spagnolo. Pep il glamour, che corre per vincere tutto o quasi sulla panchina del Manchester City dopo una vita di successi al Barcellona, il gentleman del fair play che veste come i Beatles ed è fautore del politicamente corretto, è andato contro le regole.

Per la finale di Coppa di Lega inglese contro l’Arsenal a Wembley gli avevano fatto sapere dalla federcalcio inglese che quel fiocco giallo indossato durante un precedente incontro di FA Cup (il trofeo più antico d’Inghilterra) con il Wigan a sostegno della causa indipendentista catalana era un messaggio politico da non far recapitare di nuovo, un like ideale ai politici finiti in carcere per l’indipendenza. Ma Pep non accoglie il consiglio e si è detto pronto ad affrontare le sanzioni del calcio (la Guardia Civil gli aveva già perquisito l’automobile). La sua adesione alla causa indipendista risale a 25 anni fa, dopo il successo in Coppa dei Campioni del suo Barcellona contro la Sampdoria di Mancini e Vialli, con l’esibizione della Coppa dal balcone del palazzo della Generalitat, che ospita gli uffici del governo della comunità autonoma catalana al grido di «cittadini di Catalogna, adesso la coppa è qui», ricordando le parole dell’ex presidente della Catalogna Tarradellas, espresse 41 anni fa dallo stesso balcone, dopo 38 anni in esilio. Sulle sue tracce c’era il franchismo.

E come Pep, forse anche di più, un paio di allenatori nella Nba, la lega americana di basket, la più famosa al mondo, si impegnano politicamente e non fanno sconti a Donald Trump. Steve Kerr per esempio, il coach dei Golden State Warriors campioni in carica, avrebbe dovuto sfilare con i suoi atleti nei giorni scorsi alla Casa Bianca per lo scambio di saluti presidenziali per il titolo vinto lo scorso giugno contro i Cleveland Cavaliers di Lebron James, altro «nemico» dichiarato di Trump e sostenitore della causa degli afroamericani. Kerr invece ha scelto di andare a Washington ma per visitare il National Museum of African American History. Un segnale forte, fortissimo per rimarcare la distanza dal presidente americano. Nei giorni scorsi il coach di Golden State si era scagliato contro Trump dopo la strage in Florida per la connivenza silenziosa con le multinazionali delle armi americane, munifiche sostenitrici della sua campagna elettorale. E come Kerr non ha mancato di far sentire la sua voce Gregg Popovich, allenatore dei San Antonio Spurs, che ha definito Trump «un codardo», aggiungendo «per gli Stati uniti motivo di imbarazzo per il mondo».