Le pietre, i muri possono narrare storie. Un edificio abbandonato contiene esistenze, emozioni, esperienze. Così un luogo, uno spazio, una vecchia fabbrica può raccontare della Roma del dopoguerra, di una rivoluzione medica, della crudeltà, disumanità, violenza e ignoranza di un’intera classe politica. Sono queste le prime osservazioni che vengono in mente dopo la lettura di un libro come Hotel Penicillina. Storia di una grande fabbrica diventata rifugio per invisibili (di Anna Ditta, Marco Passaro, Andrea Turchi; prefazione di Mauro Palma, introduzione di Luigi Cerruti, postfazione di Matteo Balduzzi; Infinito edizioni, pp. 255, euro 14).

UN RACCONTO COLLETTIVO che affronta, con diverse testimonianze, una storia che nasce come sviluppo, crescita, scienza e aiuto in un paese devastato dalla guerra, e si trasforma negli anni in un grido di dolore e disperazione che pochi ascoltano.
La fabbrica di penicillina Leo era stata costruita «al decimo chilometro della Tiburtina, davanti alla borgata di San Basilio» su un vasto appezzamento di terreno acquistato nel dicembre del 1947 dal barese conte Giovanni Armènise. L’industriale, fascista e amico personale di Mussolini, dopo la guerra velocemente convertito alla democrazia e alla nuova repubblica italiana, era divenuto in pochi anni un esponente importante della classe dirigente italiana.
La fabbrica nacque nel contesto della recentissima scoperta della penicillina, ad opera dello scozzese Alexander Fleming, premio Nobel per la medicina. Era venuto a Roma alla fine dell’estate del 1950 per l’inaugurazione dell’edificio. A marzo erano stati già prodotti i primi 400 grammi di penicillina, «un bene così prezioso da essere scortato da guardie armate e rinchiuso nella cassaforte della Leo».
La scoperta di questo antibiotico, facilmente iniettabile, fu una vera e propria rivoluzione: prima si moriva delle più semplici infezioni. Alla fine della guerra la penicillina si era trasformata in un bene rarissimo, tanto che a Roma veniva venduta dai soldati americani al mercato nero nella Galleria Colonna.

ALCUNE AZIENDE la importavano dagli Stati Uniti ma le quantità risultavano molto al di sotto del fabbisogno nazionale. Era essenziale iniziare a produrre la penicillina in Italia. Questo facilitò il veloce sviluppo della Leo.
Giovanni Armènise aveva comprato nel marzo del 1947 il brevetto per la produzione del medicinale dalla danese Lovens kemiske fabrik, l’unica azienda in Europa, ad eccezione di quelle del Regno Unito, a produrre penicillina con una licenza propria. La fabbrica era stata costruita con un progetto avanzato per l’epoca: reparti integrati e comunicanti fra loro, tunnel sotterranei. Gran parte della manodopera veniva assunta nella vicina borgata di San Basilio, a Pietralata e al Tiburtino III.
«La più grande fabbrica di penicillina d’Europa» titolò a nove colonne L’Unità. Era lo stesso proprietario ad assumere gli operai dopo un colloquio diretto. «Quale giornale leggete?», era questa una delle domande fatte agli aspiranti operai. «Solo il Corriere dello sport» la risposta giusta.
Hotel Penicillina riporta molte testimonianze dirette sulla travagliata storia della Leo. Nel 1964 l’azienda ebbe la sua prima grave crisi produttiva e finanziaria e decise il licenziamento di 345 lavoratori. La risposta operaia fu immediata e ad aprile la fabbrica fu occupata per più di un mese. Ma una serie di difficoltà la porteranno alla vendita e poi alla chiusura definitiva negli anni Settanta. La Beecham, una delle ultime ditte proprietarie della fabbrica, impose, dopo la cessazione della produzione di penicillina, la chiusura di tutte le linee di fermentazione: dopo quasi quarant’anni, la vecchia Leo non era più la fabbrica di antibiotici di Roma.

La storia del suo decadimento e dismissione va affiancandosi a quella dell’area in cui sorgeva. Anche San Basilio in quegli anni sta cambiando: «il quartiere da proletario è diventato sottoproletario». Gli edifici abbandonati sono poco alla volta occupati, la composizione sociale si fa variegata. Si insinua la malavita organizzata e lo spaccio di droga. Dopo innumerevoli vendite e acquisizioni, nel 1996, l’attività nella vecchia fabbrica interesserà soltanto gli edifici che affacciano nei cortili interni, ma la produzione di materie prime è ormai un lontano ricordo. La chiusura totale avverrà nel 2008. «L’ex fabbrica precipiterà nell’isolamento, nel vuoto e nel silenzio», subendo saccheggi e ruberie.

IL LUOGO ASSUMERÀ quell’aspetto spettrale e scheletrico che ancora oggi la contraddistingue. «Ma lo scheletro è comunque un riparo, se non dal freddo, almeno dalla pioggia: ed è a questo punto che iniziano a comparire agli ingressi della vecchia Leo i disperati cercatori di un tetto».
Nel giugno del 2017 all’interno di due dei vecchi capannoni industriali vivevano circa 500 persone: migranti africani, cittadini dell’Europa orientale e italiani tra cui minori, anziani, donne incinte e disabili.
Il primo sgombero degli edifici, sul lato di via di Vannina, è datato 8 giugno 2017. Il 12 dello stesso mese viene effettuato un nuovo sgombero al civico 78 e Mustafà, un giovane gambiano, preso a manganellate dalla polizia, perderà l’occhio destro. Sarà solo una delle tante violenze in uno dei tanti sgomberi.
La Casa della penicillina – scrive Mario Palma nel libro – è diventata «luogo di un degrado non visibile al mondo circostante, un luogo vuoto che tuttavia ci parla del suo passato. E ci parla dei tanti soggetti che lo hanno abitato: lo scienziato, l’operatore, il rifugiato, l’inabitante, l’invisibile, lo scomparso».