L’ossessione di Stalin per Adolf Hitler è ormai certificata dagli storici. Il Führer, dal canto suo, non nascondeva una sorta di rispetto per il capo dell’Unione sovietica: «Churchill è uno sciacallo, Stalin una tigre». Sulle ragioni dell’interesse quasi morboso di Stalin per il nemico, in particolare per la sua vita privata, si possono solo azzardare ipotesi. In una prima fase il georgiano sospettava che Hitler fosse vivo e fuggiasco. Però, anche quando si convinse del contrario, conservò una curiosità estrema per l’uomo che era riuscito a ingannarlo e coglierlo di sorpresa, nonostante la proverbiale astuzia.
Nel 1945, subito dopo la presa del bunker, Stalin ordinò al Commissariato del popolo per gli affari interni (Nkvd) un’inchiesta sugli ultimi giorni di Hitler, per verificare se il suicidio fosse reale o solo una messa in scena. L’ «Operazione Mito», così definita in codice, si allargò poi sino a tutta la fase del nazismo al potere.

Le fonti a disposizione degli apparati sovietici erano i prigionieri catturati a Berlino: in particolare due uomini che particolarmente vicini al Führer, che conoscevano quei dettagli sulla sua vita privata a cui Stalin teneva soprattutto. Uno, Heinz Linge, era stato cameriere personale di Hitler e poi capo dei servizi addetti alla sua persona. L’altro, Otto Gunsche, era l’ex aiutante di campo personale del Führer. Erano gli uomini di fiducia a cui Hitler aveva ordinato di bruciare il suo corpo e quello della moglie, Eva Braun.

Il risultato della dettagliata inchiesta del Nkvd fu un voluminoso fascicolo consegnato a Stalin nel dicembre 1949. Riposto nel suo archivio personale si trova ancora tra le carte riservate del presidente della Russia: non è mai stato e ancora non è consultabile nella versione originale. Dieci anni dopo Chruscev ne fece però fare una copia esatta, a propria volta secretata e conservata tra i documenti del segretario del Comitato centrale.

Dimenticato anche dopo l’apertura degli archivi sovietici nel 1991, il rapporto è stato riportato alla luce oltre dieci anni fa da due studiosi tedeschi, Henrik Eberle e Matthias Uhl, e arriva ora anche in Italia con il titolo Il Dossier Hitler (traduzione di Andrea Casalegno e Domenico Carosso, Utet, pp. 610, euro 20.00).
È un documento prezioso ma da prendere con le molle, non solo per le numerose imprecisioni puntualmente segnalate dai curatori. Il materiale è senza dubbio di prima mano, frutto degli interrogatori estenuanti subìti da due testimoni diretti che avevano accesso sia alla dimensione pubblica che a quella privata di Hitler: i retroscena dei vertici internazionali come quello di Monaco ma anche le cene, gli scherzi grossolani, gli incontri con Eva Braun.

La voce è però quella di due prigionieri sempre a rischio di esecuzione, consapevoli quindi di dover pesare le parole. I verbali degli interrogatori venivano inoltre filtrati dagli agenti del Nkvd, ancor più coscienti del rischio che correvano qualora fossero emerse cose sgradite al «piccolo padre».
Pur con tutti i suoi limiti, l’immagine di Hitler che emerge da queste carte è forse la più viva e vera tra quelle tratteggiate in innumerevoli biografie. È il ritratto di un dittatore convinto della propria missione segnata dal destino, ma anche di un politico che aveva coscientemente fatto dell’azzardo e del bluff la cifra della propria azione e la chiave dei propri successi. Al contrario del freddo e calcolatore Stalin, tanto affascinato dal nemico che, con l’attacco a sorpresa del giugno 1941, era quasi a distruggerlo.