È sconsolante vedere come tutti giochino la propria partita intorno alla notizia del ritorno della recessione in Italia. Una partita per politici ed economisti che addossano le responsabilità su altri. Raramente si prova a leggere la fase, il contesto nazionale in relazione a quello internazionale. I dati strutturali insieme a quelli contingenti. Chi ha governato fino a otto mesi fa, con i propri economisti di riferimento al seguito, scarica le responsabilità sull’attuale governo, d’altro canto le dichiarazioni strabilianti di Di Maio sul fatto che «un nuovo boom economico possa nascere, come negli anni ’60», in quanto passeremmo dalla costruzione delle autostrade alle autostrade digitali, fotografano l’inadeguatezza dell’attuale governo. Per motivi diversi, dunque, tutti sottovalutano il contesto. Eppure un dibattito coinvolge persino alcuni organi mainstream e solleva problemi di ordine profondo.

L’Economist della scorsa settimana, riprendendo la definizione dello studioso di origini indiane Adjiedj Bakas, ha titolato il suo approfondimento Slowbalisation. Il settimanale britannico sottolinea come in questa fase non sia utile consolarsi con una crescita globale che continua ad avere il segno positivo, mentre tutta una serie di indicatori volgono verso il peggio e che danno il senso delle problematiche esistenti. I traffici dal 2008 a oggi sono scesi dal 61 al 58% del Pil mondiale, le importazioni di beni intermedi, che erano cresciute rapidamente nei vent’anni antecedenti la crisi, sono poi passate dal 19 al 17% del Pil. La marcia delle multinazionali si è fermata, la quota dei loro profitti globali dal 2008 è scesa dal 33 al 31%. Gli investimenti diretti esteri sono calati dal 3,5 al 1,3% del Pil mondiale nel periodo 2007-2018. I prestiti esteri delle banche sono addirittura collassati, passando dal 60% del Pil del 2006 a circa il 36% di oggi. Infine i flussi di capitale lordi sono scesi dal picco del 7% raggiunto nel 2007 all’1,5%.

Tutti dati che descrivono linee di tendenza affatto rassicuranti a livello internazionale, i cui effetti potrebbero vedersi nel tempo. Un quadro che parla non solo di un rallentamento degli scambi commerciali, ma persino di una difficoltà delle grandi imprese, quelle che finora hanno trainato la crescita. Ciò che registra l’Economist, dunque, non è semplicemente uno spostamento del baricentro dell’economia mondiale dal globale al locale, ma una difficoltà a rilanciare un ciclo espansivo dell’economia.

La conferma l’abbiamo su scala continentale dove il Fondo monetario internazionale nei suoi ultimi tre report ha ridotto le stime di crescita per l’eurozona nel 2019, passando dal 2 all’1,9% per giungere infine all’1,6%. Questo rallentamento è il frutto di quello globale a cui si aggiungono le debolezze di un Vecchio continente sempre più stritolato dalla competitività impostasi su scala globale. In tale contesto l’Italia, che possiede un’impresa orientata all’export per circa un terzo della sua economia, non può che essere risucchiata.

Come evidenzia il capo economista di Confindustria, Andrea Montanino, nel concatenamento della produzione industriale «il rallentamento europeo è un danno doppio: per i nostri beni di consumo, che vengono consumati meno in Europa, e per i nostri beni intermedi, che vengono richiesti meno per le produzioni industriali degli altri paesi».

Per fare un solo esempio, ben il 27% del valore aggiunto manifatturiero del Piemonte va a finire in Germania. La recessione italiana, dunque, viene dai livelli di integrazione economica perduranti a cui vanno aggiunti i mali cronici interni che non consentono certo di ipotizzare che un ripiegamento su scala nazionale possa rispondere alle attuali sfide. Globalismo e sovranismo sono entrambe alternative che ci porteranno a sbattere contro il ristagno economico e il regime di ipercompetitività.