Come ci raffiguriamo mentalmente la letteratura? Questo potrebbe essere un punto, il più semplice, da cui partire per affrontare oggi un discorso sulla critica letteraria. E poi: quale metafora usare, quale modello mentale? La mappa è uno dei più ricorrenti: una grande, favolosa mappa di relazioni e di inferenze, nella quale ogni lettore può ricomprendere se stesso, in un continuo riproporsi del voi siete qui.
Sull’immagine della mappa si costruiscono spesso corsi universitari, unità didattiche, seminari, e la si usa per insegnare la letteratura, giocando sull’idea di uno spazio grande e insieme familiare, saturo di rispondenze relative al rapporto fra sé e il testo. Quanti più luoghi conosciuti, più tragitti evidenziati, più punti uniti in questa mappa, tanto più articolato, documentato e autorevole il giudizio.

Illusorie coerenze
La metafora è invitante, ma tutto sommato improduttiva: perché dà l’illusione di una coerenza spesso inesistente, dove tutto va d’accordo con tutto, e dove non ci sono interstizi, crepe, evidenze di vuoto. Ma sono proprio, questi, in realtà, i luoghi ideali dei quali va in cerca la critica, i suoi anfratti al di sotto o al margine dell’idea di letteratura come una grande superficie che esibisce la sua continuità. Sono molti i punti sui quali oggi la critica avrebbe bisogno di farsi spazio, di produrre pensiero. Uno di questi, implica l’essere in ascolto di qualcosa: di una struttura, innanzi tutto, avrebbe detto Pierre Boulez.
Una specie di suono profondo, un nucleo di attrito attraversa la testualità, ne forma e ne scandisce la grana sovrastante, e le molte filigrane che si muovono sotto di essa. Lo spessore di queste filigrane, il brusio che si avverte durante la lettura, si manifesta nei punti di contatto, ma anche nelle cerniere, nelle suture, nelle irregolarità. Il testo è una materia porosa, sedimentata. Ascoltarlo con questa attitudine riporta a un odore di passato: il critico è l’alchimista, scriveva Walter Benjamin; e l’alchimista è un archeologo della mente, aggiungeva Michel Butor. C’è qualcosa di retroattivo, di inattuale, come la ricerca di un’origine, di una totalità perduta, della quale in realtà proprio Benjamin aveva intuito la prefigurazione nell’idea di frattura, di salto nel vuoto che spezza qualsiasi forma di continuità. Ogni relazione con il testo, ogni atto interpretativo, nasce nella coscienza di questo vuoto: ne porta dentro l’impronta, come una fragilità di fondo, e finisce per trasmetterla all’esterno, come un’informazione collaterale, marginale, che tuttavia resta lì, fastidiosamente viva.
Forse, proprio perché nasce dall’insoddisfazione di un vuoto e la trasmette all’esterno, spesso l’attitudine critica tende a slittare verso derive più rassicuranti. Diventa commento, per esempio: esplora il testo alla ricerca di una sola chiave che faccia tornare i conti, come scriveva Michel Foucault nell’Ordine del discorso, che insiste sull’analisi delle mutazioni di un’opera nel tempo, sulla sua genesi, sulla dinamica della sua formazione e dei suoi assestamenti; insomma, su quella fase costruttiva che la filologia ha chiamato, appunto, critica del testo: un esercizio complesso e necessario, che non è – tuttavia – la critica come la vorremmo oggi.
L’altra forma di rassicurazione verso la quale è facile tendere sta nel ridurre il testo, come scriveva Susan Sontag in Contro l’interpretazione, al suo contenuto, in modo da leggerlo come informazione su un discorso più ampio, sociologicamente fondato: postcolonial, environmental o transitional, e così via.
Quando vengono irrigidite, o rese totalizzanti, queste due forme di relazione con l’opera diventano espedienti per ricomporre la favolosa mappa: servono a fare ordine, a produrre dottrine. Ma è ben altro quel che può derivare da un contatto, anche solo primario, con il testo: l’opportunità di rintracciare le tensioni che disuniscono, le forze che fanno attrito, le prove del disordine e di una certa inappartenenza a quasivoglia famiglia. Per arrivarci, ancora una volta bisogna ripensare la metafora della mappa: più che sezionare la superficie di un’opera, è necessario mettersi in grado di avvertirne il movimento, il suo processo interno, annotare i punti sui quali si fondano i suoi equilibri e le sue cadute.
I conti con la finitudine
Dei nostri strumenti stilistici, retorici, metrico-ritmici dobbiamo testare continuamente l’efficacia a contatto con le nuove forme testuali che l’attualità ci consegna: l’importante è rappresentarsi mentalmente il testo come in movimento, ascoltarne il sistema interno delle tensioni continue e diversamente rispondenti. Questa particolare processualità del testo, questo suo modo di investire pragmaticamente il lettore, scuoterlo, risvegliarlo, è intrinseca a ognuna delle sue articolazioni, sta dentro le sue strategie compositive, nel modo in cui riattiva il bianco della pagina o il silenzio che precede dell’emissione della voce.
La strategia che guida ogni autore all’uso della sintassi dà forma a una struttura, ritma un segmento in versi o in prosa, è un elemento significante che denuncia ogni volta la sua differenza rispetto a tutto il resto del possibile, mentre riafferma la propria discontinuità dal back-ground che lo ha generato. Per tornare a elaborare una teoria, il critico dovrebbe raccontare questo movimento e restituirne un modello credibile, rinunciando a consacrarsi a qualche servizio d’ordine, ovvero a qualche strategia di lettura già prefissata.
Rinunciare a questa tensione implica perdere, nel silenzio della critica, l’ascolto della conflittualità interna a ogni testo, le sue discontinuità, la stratificazione delle sue forme; la critica ci chiede il coraggio di ritrovarci a fare i conti con la nostra finitudine, con i nostri limiti di lettori, di misurarli sulla pagina tanto più essa ci trasmette la necessità di indagarne lo scompiglio, le loquaci fratture.