In barba ai processi di elefantiasi che hanno fatto lievitare i festival letterari ormai storici fino a trasformali in calderoni dai quali si levano immani fumi per inesistenti arrosti, alcune manifestazioni cominciate in sordina pochi anni fa hanno mantenuto entro limiti riconducibili alla dimensione umana il programma degli incontri con gli scrittori invitati: fra questi Libri come, da domani fino a domenica all’Auditorium di Roma. Certo, i gusti più prevedibili, corrispondenti alle tirature più ghiotte, non sono stati trascurati, e perciò avremo i politicamente impegnati Luis Sepúlveda e la volenterosa Jhumpa Lahiri sul palco a gratificare i loro numerosissimi fan; né le mode sono state sdegnate, e dunque l’astro americano di Zadie Smith tornerà a splendere sulla capitale, così come l’ironia e la leggerezza di Daniel Pennac aggingeranno altre delizie ai suoi lettori. Ma ci saranno anche presenze nelle quali le copie vendute, le ragioni del successo, il feticismo dei fan, e l’interesse effettivo del fenomeno che rappresentano si ritrovano uniti in un solo nome, e questo è il caso, per esempio di James Ellroy e, dopo l’accoglienza del suo Limonov, anche di Emmanuel Carrère, mentre la stessa sorte ancora non è toccata né a Pierre Lemaitre, nonostante il Goncourt meritatamente vinto nel 2013, né a Maylis de Kerangal, ma non è detto che di qui a pochissimo il passaggio di parola che già circonda questa scrittrice non faccia di lei una imprescindibile protagonista della narrativa contemporanea.
Di James Ellroy, considerato quasi all’unanimità il principale autore noir vivente e il massimo innovatore del genere dai tempi di Dashiell Hammett, Stile libero ha tempisticamente mandato in libreria, orsono una settimana fa, l’ultima tappa di un trip mentale intitolato Perfidia, che e inaugura una nuova tetralogia ambientata a Los Angeles, e fa rivivere molti dei personaggi del L.A. Quartet, una decina d’anni prima, ossia all’epoca dell’attacco giapponese a Pearl Harbour e dell’internamento forzato, nella stragrande maggioranza dei casi ingiustificato, di decine di migliaia di americani di origine giapponese.

Pierre Lemaitre esordì con il romanzo che da Mondadori è appena uscito con il titolo Irène, dal nome della bella moglie incinta del commissario Camille Verhoeven, «comandante» presso la polizia di Parigi: un uomo di bassa statura e chiara fama, che rincorre gli assassini di Parigi con il cuore rivolto alla propria congiunta, e risolve – incredibilmente – casi sui quali la sua ben meritata reputazione di irregolare, insubordinato, provocatorio, non lascerebbe sperare: un personaggio per molti versi complementare a quello di Jules Maigret, cui non somiglia affatto. Ma il libro che ha segnalato Lemaitre alla critica uscì in coincidenza con il centenario della prima guerra mondiale, e Mondadori lo ha tradotto l’anno scorso con il titolo Ci rivediamo lassù.

Chi cercasse qualcosa di politicamente scorretto come antidoto agli eroismi celebrati dalla retorica sulla guerra troverà di che di che appagarsi: ambientato tra il novembre del 1918 e il marzo dell’anno seguente, il libro ha un andamento così apparentemente classico da lasciar evocare, tutti insieme, i fondali storici di Victor Hugo, le gesta avventurose di Dumas, il ritratto minuzioso della società parigina à la Balzac; ma è in realtà un affresco epico-picaresco che dalla guerra si sposta allo squallore delle macerie, mettendo in scena due reduci che, nella Parigi postbellica e desolata, tramano una truffa colossale, con buona pace dell’amor patrio e del culto della memoria. Di sei anni più giovane del connazionale Lemaitre, Emmanule Carrère è tuttavia autore ben più noto, almeno da quando ha deciso di dedicarsi a traslare romanzescamente vite vere: la più celebre è quella dell’avventuriero russo Limonov, che ha dato il titolo al suo romanzo più venduto; ma in Francia ben altro scalpore aveva fatto il caso di Jean-Claude Romand, il protagonista dell’Avversario, un mentitore folle e criminale, prigioniero della gabbia di finzioni che aveva ordito intorno alla sua vita, la cui vicenda Carrère raccolse mentre Romand scontava la condanna per lo sterminio della sua famiglia. Ma erano vere, sebbene non riconducibili a persone pubblicamente note, anche le vicissitudini raccontate in Vite che non sono la mia, una delle descrizioni del dolore più lucide e letterariamente magistrali che la narrativa contemporanea ci abbia regalato.

Il confronto di Carrère con il pathos della vita è scelto e dichiarato, così come fa parte dei suoi intenti il non mascherarsi dietro il distacco postmoderno del disincanto; ma almeno una volta la sua attitudine a fondere biografia e finzione gli ha preso la mano e in Facciamo un gioco ha pagato caro lo scambio tra vita vissuta e vita romanzata. Su invito di Le Monde aveva buttato giù un testo erotico ambiento in un vagone ferrioviario, la cui protagonista era la sua fidanzata nell’atto di masturbarsi mentre leggeva quello stesso racconto. Poi si era accertato della data di uscita, e aveva comprato alla sua compagna un biglietto ferroviario per quel giorno, raccomandandole di leggere, durante il viaggio, il racconto del quale non le aveva ancora parlato. Il gioco prevedeva che anche altri viaggiatori avrebbero fatto lo stesso e che nel leggere avrebbero riconosciuto nella ragazza la protagonista del racconto, in un crescendo di eccitazione generale. Ne uscì divertito, forse, ma subito dopo venne furiosamente abbandonato.
Mentre era in tournée per presentare Limonov parlò del suo libro successivo, quello al quale stava ancora lavorando e che Adelphi ha appena tradotto con il titolo Il regno, come di uno scoglio che lo aveva fatto scontrare con i suoi limiti di scrittore: ora l’impasse è stata felicemente superata, ma la posta in gioco era effettivamente alta, perché il racconto – ancora una volta e più di altre autobiografico – riguarda la parentesi religiosa dello scrittore francese, dalla quale idealmente prende avvio la storia dell’evangelista Luca, in un arco di tempo che va dal 50 al 100 dopo Cristo, spostandosi fra Gerusalemme, Roma e la Grecia di ieri e di oggi, ma tornando di tanto in tanto anche nello studio parigino di Carrère, dove tutto quel che egli immagina nasce e sembra dovere immancabilmente riconfluire.
Terza presenza francese, Maylis de Kerangal è senza dubbio la atout più nascosta ma al tempo stesso più promettente del festival, perché la sua scrittura compiaciuta e a tratti virtuosistica, la sua esibita eleganza sostenuta dalla perizia dimostrata nel sapere governare lunghe parentesi le cui descrizioni si alimentano di innumerevoli tecnicismi, rendono contagiosa la passionale voluttà con cui si immerge nella scrittura.

L’ultima sua performance è appena stata tradotta da Feltrinelli con il titolo Riparare i viventi e racconta le drammatiche ventiquattro ore che intercorrono tra l’incidente automobilistico di un ragazzo appena reduce da una sessione di surf e la sua morte, ore di coma profondo in cui ai genitori spetta decidere se donare gli organi del figlio o negarli. Tutte le fasi dell’espianto vengono dettagliatamente descritte e poi quelle del trapianto del cuore nel corpo della donna che lo accoglierà, mentre al dolore dei genitori non si concede tempo, né indugi narrativi, ciò che rende la loro angoscia ben più tangibile e la scrittura di de Kerangal un vortice ipnotico.
Ancora domenica, una presenza tangenziale alla letteratura ma non per questo meno interessante: Gilles Clément, filosofo del paesaggio, agronomo, botanico, felice narratore dell’ambiente che ci circonda. Ha scritto per Quodlibet Ho costruito una casa da giardiniere e per Derive Approdi Nuvole, un diario di bordo redatto durante la sua traversata atlantica; ma è noto soprattutto come teorico del «terzo paesaggio», ossia lo spazio ideale nel quale eglio iscrive ogni luogo urbano dell’«abbandono» e della dismissione, dove piccole foreste primigenie risorgono, riconsegnando ciò che resta alla natura. Quella concepita da Clément è una terra intesa come un insieme vivente, senza fratture gerarchiche fra specie, sulla quale «la vita avanza seguendo un caos poetico». Prorpio in coincidenza cobn la fine del festival uscirà da DeriveApprodi la sua Piccola pedagogia dell’erba, vent’anni di riflessioni e pratica paesaggistica.