L’operazione antimafia “Nuova Alba” fa cadere anche l’ultimo tabù: quello del 416 bis. L’inchiesta della procura di Roma rappresenta infatti la prima vera e organica indagine in cui si contesta il reato di associazione mafiosa, reato a cui perfino la Banda della Magliana è riuscita a sfuggire. L’inchiesta sui clan Triassi (legato a Cosa nostra) e Fasciani che operano a Ostia dimostra infatti che esistono delle organizzazioni che si sono divise le influenze e gli affari, hanno il controllo militare del territorio, coniugano l’intimidazione e la regola mafiosa del “rispetto”. Da oggi nessuno più parli di infiltrazioni e guerra di bande e nessuno pensi di circoscrivere le mafie al litorale: il quadro investigativo dice altro. Come proviamo a dire da molto tempo.
Prima lo scorso gennaio, con l’assemblea Restart antimafia, poi a metà giugno con la “Lunga Marcia della Memoria” dedicata alla Capitale presentando il dossier su #Romacittàdimafie (che abbiamo consegnato al sindaco Ignazio Marino e al procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone) abbiamo messo a sistema le informazioni sulla presenza dei clan in città. Uno sforzo di analisi necessario e che pure qualcuno considerava una forzatura.
Eppure i numeri raccolti avrebbero dovuto scoraggiare ogni negazionismo. A cominciare da quelli sulle operazioni bancarie sospette: 3.354 a Roma quelle che ha contato l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia nei primi sei mesi del 2012; 881 in più rispetto allo stesso periodo dell’anno predente, quando già la Capitale si attestava in pole position nazionale. Ci sono poi gli omicidi eccellenti, come quello del boss Vincenzo Femia che sarebbe stato assassinato lo scorso gennaio perché si sarebbe opposto all’apertura di una nuova cellula della ’ndrangheta nella Capitale e che dimostra come tutte le mafie siano legate a doppio filo con il tessuto economico della Capitale.
Gambizzazioni e omicidi, usura, droga, gioco d’azzardo, riciclaggio negli immobili, nel commercio e nella ristorazione, racket (il pizzo si paga a Ostia come a Piazza Bologna, come abbiamo scritto): sono soprattutto queste le attività e gli affari delle mafie, italiane e straniere, nella Capitale. Che i clan alimentano da molti anni, se è vero che di questi affari aveva già scritto il presidente della Commissione parlamentare antimafia Gerardo Chiaromonte nel lontanissimo 1991. Parole pesanti, eppure ignorate. Il risultato è che i clan sono entrati nel tessuto economico e sociale e operano con disinvoltura grazie a complicità importanti nelle professioni, nell’imprenditoria, dentro le banche o persino nei tribunali.
Abbiamo messo dentro un quadro unico, in cui vanno letti e interpretati i fatti criminali, nomi, storie e inchieste e li abbiamo. Perché il fatto che in questi anni non ci siano state condanne per 416 bis non significa che la mafia non sia stata presente. Basti pensare che ci sono personaggi considerati mafiosi a Napoli o Reggio Calabria che nella Capitale sono «criminali comuni». Perché è possibile che per configurarsi un reato manchino uno degli elementi previsti dal codice – la forza di intimidazione, la condizione di assoggettamento e il vincolo di omertà – ma appare probabile che, come confidano alcuni investigatori, «esiste un problema di cultura giuridica e investigativa che dobbiamo poco per volta risolvere».
Roma in realtà è un porto di clan. «In tanti nel tempo hanno deciso di vivere qui», diceva il prefetto Giuseppe Pecoraro nel 2011. Basti pensare a Frank Coppola, arrivato negli anni 60 a Pomezia, o ai Morabito da 50 anni a San Basilio o ancora a Pippo Calò che Cosa nostra ha mandato a Roma negli anni 70 quando hanno cominciato a farsi vive anche le famiglie ‘ndranghetiste De Stefano, Mammoliti e Piromalli. Con loro, e molti altri, sono arrivati anche fiumi di eroina e cocaina. Nessuno è mai andato via: solo una questione di residenza, secondo Pecoraro. «Di affari», per Pignatone.
«Ristoranti, bar e caffè vengono acquisiti da società di nuova costituzione, spesso con capitali sociali esigui, che fungono da schermo dei gruppi mafiosi», sostengono i magistrati nella ultima relazione Dna. Le mafie sono pronte «a instaurare stabili relazioni con imprenditori, professionisti, esponenti del mondo finanziario ed economico servendosene ed alimentando quel circuito di relazioni che ne potenzia l’operatività». Un modello economico sempre più diffuso e relazioni pericolose vecchie e nuove mai del tutto chiarite. Come quelle tra banche e criminalità. Tra cui, da sempre, c’è una certa consuetudine. Lo dimostra la storia infinita di un big come Enrico Nicoletti, passato alla storia come il cassiere della Banda della Magliana, che aveva rapporti intensi con l’agenzia di piazza Montecitorio della Cassa di Risparmio di Rieti, grazie ai quali riuscì ad acquistare la villa che oggi ospita la Casa del jazz. Storie che si ripetono. Come quella di personaggi legati alle famiglie Saccà e Frisina. Arrivati a Roma nel 2000 senza una lira in tasca finiscono ben presto nei salotti buoni. Lo stesso “schema” che aveva fatto la fortuna degli Alvaro che sono riusciti a controllare locali storici come il Cafè de Paris o il George’s: un impero – confiscato – da 200 milioni di euro costruito grazie alla compiacenza di notai, banche e assicurazioni. E tra i locali finiti (i provvedimenti non sono definitivi) in mano alla ‘ndrangheta ci sono il bar Clementi di via Gallia, il bar Cami di viale Giulio Cesare, il Time out Cafè di via di Santa Maria del Buon Consiglio, il bar California in via Bissolati, il ristorante Federico I in via della Colonna Antonina, il bar Pedone al Tuscolano. Un quadro che in troppi hanno finto di non vedere. Così come nessuno ha voluto ammettere che a Roma, in diverse zone, esiste il controllo del territorio, dei mercati rionali, dei parcheggi.
C’è un deficit di conoscenza e consapevolezza, che attraversa tutta la società. Non ha aiutato la politica che ha messo ai margini o silenziato il tema, la società civile che ha considerato lontano il problema o lo ha delegato all’antimafia “di facciata”, e il mondo dell’economia che non ha voluto sentire l’odore dei soldi. L’inchiesta può rappresentare uno spartiacque: da oggi non sarà più possibile far finta di non vedere. Bisogna lanciare una discussione pubblica e aperta sulle mafie e le attività di contrasto, i diritti e gli strumenti legislativi. E la politica non rimandi più il confronto. Continuare a fingere o minimizzare sarà una colpa imperdonabile.