«L’Argentina penalizza l’interruzione della gravidanza nella maggior parte delle situazioni… ma l’aborto succede, è un fatto», ha detto il presidente argentino Alberto Fernández domenica scorsa durante l’apertura delle sessioni al Congresso Nazionale, annunciando che nei prossimi dieci giorni invierà un progetto di legge di Interruzione Legale di Gravidanza (Ile) che legalizzi – non solo depenalizzi – «l’aborto nel periodo iniziale della gravidanza e permetta alle donne di accedere al sistema sanitario quando prendono la decisione di abortire». È la nona volta che viene presentato un progetto simile ma la prima in cui lo fa il presidente. Contemporaneamente, Fernández ha annunciato che il suo governo lancerà anche un «programma di educazione sessuale integrale e prevenzione della gravidanza non desiderata».

L’ABORTO SUCCEDE. «Non so se davvero l’embrione fosse morto perché mi avevano detto che esisteva la possibilità che vivesse. Non ricordo bene ed ero molto piccola per chiedere. Alcuni giorni dopo l’arrivo in ospedale ho avuto contrazioni con un forte dolore, e mi hanno fatto andare in bagno. Ho espulso tutto e l’ho visto dentro al water. Le infermiere mi hanno invitato a infilarci la mano e a tirarlo via. Volevano verificare che fosse uscito tutto», così racconta Corina il suo passaggio in un ospedale della provincia di Buenos Aires, dopo il suo primo aborto clandestino. Oggi ha 30 anni, ma allora ne aveva solo 16. Il preservativo non aveva funzionato e, aggiunge, «non conoscevo la pillola-del-giorno-dopo».

Alcuni giorni prima, con l’aiuto di sua madre, aveva ottenuto che un’infermiera andasse a casa sua, le collocasse una sonda attraverso la vagina, sino all’utero, assumendo che un’infezione avrebbe generato contrazioni e, infine, l’espulsione dell’embrione di 5 settimane. «Mi disse di coricarmi. Non ne sapevo molto, ma vidi un tubetto con il liquido che passò attraverso la sonda, per una decina minuti», racconta.

Tre giorni dopo l’infezione interna è peggiorata. «Quando avevo 43° di febbre ho detto a mia mamma ‘andiamo da un medico’». È stata ricoverata una settimana. «Mi hanno sottoposto a una visita ginecologica e fatto molte domande per trovare qualche residuo delle pastiglie – dice Corina, riferendosi al misoprostol, il principale medicinale utilizzato, per via orale o vaginale, per aborti farmacologici – «Sapevo che non dovevo raccontare nulla. Mia mamma ha dovuto firmare un foglio dell’ospedale che diceva che loro non si sarebbero fatti carico di ciò che mi sarebbe successo».

«Non posso continuare con la gravidanza», afferma Agustina dall’altro lato del telefono. Fa una pausa, ascolta e risponde alle domande: «Vivo col mio ragazzo, mio figlio e due sorelle», «studio un po’ e faccio lavoretti». A fare le domande, da una soffitta di uno stabile nel centro di Buenos Aires, è Micaela, volontaria delle Socorristas en Red (Soccorritrici in rete) che, dopo la telefonata, spiega: «Siamo tutte attiviste femministe, questo lo facciamo per convinzione, non facciamo pagare niente, offriamo tutte le informazioni sugli usi sicuri dei medicinali secondo i protocolli dell’Oms e accompagniamo donne che hanno già preso la decisione di abortire».

La chiamata è una delle tante che ricevono ogni giorno le Socorritas, il gruppo di accompagnamento all’interruzione di gravidanza più importante in Argentina. «Abbiamo iniziato il cammino dei soccorsi nel 2008, nella provincia di Neuquén», racconta Ruth Zurbriggen, una delle prime attiviste che, ispirata dal Soccorso Rosa delle femministe italiane degli anni ’70, ha fondato SenR nel 2012. Attualmente, la rete si compone di 54 collettivi, con un totale di 498 volontarie, ed è presente in tutte le province del paese.

L’ABORTO È UN FATTO. Dopo aver introdotto le prime quattro pastiglie di misoprostol all’interno della vagina, Carla si è sdraiata, con le gambe alzate contro la parete. Da lì a 15 minuti ha iniziato a sentirsi male: «Non potevo neppure parlare e volevo solo che passasse subito. Ho iniziato con brividi, febbre, diarrea, vomito. Ero avvolta in una coperta. Sono passate tre o quattro ore e non c’era sangue. Mi disperavo per paura che non funzionasse. Alla fine mi sono chiusa in bagno e ho iniziato a sanguinare. Una volta espulso, basta. È uscito il demone, ciao. Non ho più sentito dolore», racconta. «Ho avvisato Cami, che mi aveva soccorso. Vivere l’aborto circondata da donne è la cosa migliore che c’è. Oggi, a distanza di tempo e vedendo le mie amiche madri confermo ancora di più la mia decisione», dice Carla, che ha 29 anni e si è unita alle Socorristas nel 2018.

Dal 2014 le Socorristas, in collaborazione con l’Universidad Nacional de Neuquén, sistematizzano i dati di ogni accompagnamento, li raccolgono in un protocollo e li girano a una piattaforma che centralizza l’informazione. Fino al 2018 sono state intervistate 23.314 donne, di cui 19.361 accompagnate direttamente e altre 706 reindirizzate alla sanità pubblica. Si indaga anche sulle condizioni in cui giunge ogni donna – se ha provato ad abortire in passato, se si trova in un contesto di violenza di genere, se ha figli – col fine di comprendere più esaustivamente ogni caso e poter contare su dati affidabili su cui basare le pratiche di accompagnamento. «Una ragazza che arriva sanguinante in ospedale non dirà mai che è a causa di un aborto. Gli unici dati che ci sono li abbiamo noi Socorristas», dice Luciana, attivista dal 2018, anno in cui si è dibattuta per la prima volta la Ile in parlamento: «In quel momento portammo i dati in Congresso anche per rompere con l’idea che abortissero solo le ragazze povere o quelle che non hanno accesso alle informazioni».

DOPO UN PRIMO CONTATTO telefonico, le Socorristas convocano una riunione di gruppo. «Cerchiamo di ridere. A volte alcune donne piangono perché identificano una situazione di violenza, o è la prima volta che raccontano a qualcuno la propria decisione. Arrivano con tanta paura, dubbi e angosce, quindi il clima che si genera affinché si aprano è essenziale». Nel cordone urbano sud della capitale, le Socorristas – identificabili nei cortei dalle parrucche fucsia – danno corsi ai quali ogni giorno assistono in media 8 donne, di cui 3 o 4 con esperienze di tentativi precedenti di aborto. «Non mi dimenticherò mai di una ragazza che prima aveva provato a buttarsi giù dalle scale, poi aveva chiesto a suo figlio di tirarle calci sulla pancia, e infine aveva fatto ricorso a un’infermiera che le introdusse due volte la sonda, e visto che non abortiva, a quel punto è venuta da noi», racconta Luciana. Altri metodi a cui si ricorre nella clandestinità si basano su miti, come il caso delle infusioni – di ruta, origano, caffè con analgesici. Oltre 500mila argentine ogni anno, secondo la stima più citata, fornita dalle investigatrici Silvia Mario e Edith Pantelides nel 2009, mettono a rischio la propria vita scegliendo di non partorire. L’auspicio è che da quest’anno, davvero, ogni aborto sia libero, sicuro e gratuito.

*traduzione di Gianluigi Gurgigno