Gerusalemme resta, insieme al diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, uno dei cuori della questione palestinese. Tanto più negli ultimi decenni quando più radicali si sono fatte le politiche israeliane di de-palestinizzazione della Città Santa.

Cancellazione dell’identità musulmana e cristiana, della sua natura araba, di spossessamento fisico di terre e quartieri. Eppure Gerusalemme è città internazionale secondo quanto previsto 70 anni fa dal piano di partizione delle Nazioni Unite, che divise la Palestina storica in uno Stato ebraico e uno arabo. La Città Santa doveva cadere sotto il controllo e la sovranità internazionale, città aperta al mondo.

L’anno dopo, nel 1948, il movimento sionista occupa la parte ovest di Gerusalemme e la dichiara subito parte del nascente Stato di Israele. La parte est – divisa da quella occidentale dalla linea dell’armistizio con la Giordania, lunga 7 km e costellata di torrette militari e trincee – va sotto l’autorità di Amman.

Fino alla guerra dei sei giorni: nel giugno 1967 l’esercito israeliano occupa Gerusalemme est e la pone sotto la propria autorità, in palese violazione del diritto internazionale.

Nel 1980 la Knesset approva la Jerusalem law che definisce Gerusalemme «capitale indivisibile e unita dello Stato di Israele», istituzionalizzando (di nuovo in violazione delle risoluzioni Onu) l’annessione dell’intera città. Le Nazioni Unite rispondono con la risoluzione 478 che dichiara «nulla e non valida» la legge israeliana.

Dal 1967 in poi Israele ha però proseguito incessantemente alla colonizzazione della parte orientale della Città Santa con la costruzione di undici insediamenti illegali all’interno dei quartieri palestinesi o su terre palestinesi, in cui vivono oggi 200mila coloni. I gerusalemiti palestinesi sono invece 300mila, circa il 40% della popolazione totale della città.

Ma non sono mai stati riconosciuti cittadini israeliani: il loro status è di «residenti permanenti», dunque apolidi, e il loro «diritto di residenza» può essere revocato in qualsiasi momento dalle autorità israeliane che li considerano al pari di migranti stranieri. Negli ultimi 50 anni Tel Aviv ha revocato 14.400 residenze.

Secondo l’Onu, il 78% dei palestinesi e l’84% dei bambini vive sotto la soglia di povertà. L’isolamento dalla Cisgiordania, il muro di separazione, le colonie, l’impossibilità di costruire nuove abitazioni e imprese economiche provoca ogni anno la perdita di 200 milioni di dollari in opportunità lavorative e di sviluppo.