Alessia Cinquegrana, prima transessuale a convogliare in nozze, dopo una riattribuzione legale di sesso, ha dichiarato in un’intervista che l’atteggiamento dei suoi concittadini e dei suoi familiari nei confronti del suo matrimonio, inizialmente favorevole, è rapidamente mutato. Al suo marito, piastrellista, non arrivano più offerte di lavoro. Il mutamento ha fatto seguito alla diffusione della notizia che Alessia, contrariamente a quanto si pensasse, non era stata operata, per rimuovere dal suo corpo, che vuole di donna, i suoi genitali maschili.

La domanda sociale rivolta ad Alessia è quella di una scelta radicale: se vuole essere accettata come donna deve togliersi il pene. Diversamente con la sua incoerenza, fa irrompere nella vita quotidiana il fantasma della madre fallica, androgina, che, presente nell’immaginario collettivo, è confinato, tuttavia, nello spazio del sogno, oltre ad essere oggetto di rappresentazioni artistiche e religiose. La sua apparizione in un corpo vivo può diventare perturbante, destabilizzante: attiva incertezze identitarie in un mondo di scompartimenti stagni dove perfino ciò che avanza all’inscatolamento, viene classificato come sessualità «queer» e si ritrova ben confezionato e catalogato.

Nei «chiari di luna» in cui viviamo, dedicare attenzione al problema di Alessia sembra un lusso che non ci possiamo permettere. Eppure la violenza estrema della richiesta mutilante a cui la sua comunità la sottopone, aggravata dall’essere prevalentemente muta, silenziosa, ci deve far preoccupare. È un sintomo serio, ma prezioso sul piano diagnostico, del dominio di forze sotterranee omologanti che comprimono il tessuto delle nostre relazioni e ci soffocano.

Quando non vogliono operarsi, i transessuali perseguono un fine diverso da un ideale androgino di esistenza. Vivono in dissociazione psichica dal loro sesso biologico, affermano il primato della psiche sul corpo. Nondimeno del loro corpo devono servirsi perché le radici del piacere dei sensi sono somatiche. Se, come alcuni di loro fanno, si sbarazzassero dei loro genitali e/o alterassero gravemente in modo chirurgico o ormonale l’equilibrio sensoriale, sensuale che fa degli esseri umani degli esseri sessuali, si priverebbero di ogni possibilità di vita erotica. Costruirebbero un corpo meccanico, neutrale, né di donna né di uomo, che li condannerebbe a indossare parvenze di “genere”, fatte con la materia di tutti gli stereotipi visivi sociali sulle identità sessuali. Essere incoerenti con il loro assunto identitario consente loro di sopravvivere come soggetti desideranti.

Le forme «irregolari», bizzarre” dell’identità sessuale sono contemporaneamente espressione sia di una resistenza ad oltranza a una sua definizione conformante alla struttura del potere che domina la società sia di un’identificazione totale con le forze della conformazione. Non sono forme di liberazione né di alienazione. Nel loro costituirsi come paradossale trasgressione normativa, rappresentano una testimonianza concreta, visibile dell’impasse che la violenza della costruzione sociale della sessualità produce sul corpo erotico di tutti. Una costruzione che si appropria perfino delle “anomalie” che produce (i sintomi della sua azione violenta), ritrascrivendole secondo la logica della sua sintassi. La sua grammatica è sempre più radicale e, andando al di là della prospettiva autoerotica dell’androgino, porta il suo attacco alla congiunzione erotica dei sessi fino alla loro strutturazione come genere neutrale. Non è il posto della donna, invece che dell’uomo, che riserva a Alessia, bensì quello dell’«eunuco».