Józef Czapski a Witold Gombrowicz
Maisons-Laffitte, 11, IV, 1968

Caro signor Witold,
La Sua lettera, così inaspettata, mi ha colpito. Non credo che potrei scrivere di Lei sulla «Herne», tralasciando la questione meramente pratica della mia mostra londinese a maggio e tutto lo sgobbare e il rincretinimento connessi. Esiste un motivo basilare: continuo, in me e di per me stesso, a non venire a capo di Gombrowicz. Vi sono in Lei strati e substrati, ci sono in Lei cose che odio, c’è la sensazione che Lei distrugga coerentemente tutto ciò che conferisce un senso univoco alla mia esistenza. Come moralista, Lei sostiene la libertà di ogni impulso (purché sia individuale, e insieme Lei sostiene la nostra assoluta interdipendenza) quindi che vivano assassini e sadici! Ognuno ha il diritto ad avere «nella sua minestra un pezzo della carne» del cadavere del ragazzino da Lei accoppato, PERCHÉ NON POSSO CREDERE CHE LEI SIA FRATELLO DI J.J. ROUSSEAU.
Non ho gli strumenti per discutere con Lei! Ché non solo non sono un filosofo e non sono mai andato oltre qualche dilettantesco piluccamento in questo campo, ma si tratta, nel mio rapporto con Lei, di cose fondamentali, di cui Lei ben sa. E non saprei come addivenire alla mia obiezione fondamentale, alla convinzione che Lei sia volutamente sordo a certe faccende.
La scena nella chiesa (Pornografia) ed alcuni enunciati del Diario fanno sì che Lei mi sia all’improvviso vicino, come se ci ponessimo GLI STESSI problemi, ma questo non ha nulla a che fare con il Gombrowicz equilibrista, posatore, Dalì della letteratura polacca, grande scrittore e tarantola.
Per me, di Gombrowicz continuano ad essercene un paio, eppure so che si tratta sempre dello stesso, che se ne sta all’inferno, un semplice inferno «cattolico» e che da tutta un vita si dà da fare per organizzarlo in qualche modo, questo inferno, così che sia «pur tuttavia» potable.
Lei stesso sta coscienziosamente murando tutte le aperture della Sua stessa prigione.
Simone Weil scrive da qualche parte di un «inferno» che una persona può avvertire come il proprio «cielo».
E che resta? una villa nel Midi, successi mondiali: ma per favore!
E poi il cicaleccio dei seguaci e il cicaleccio dei nemici: questi ultimi si sono spaventati (perché famoso) e azzittiti.
Non riesco ad addivenire, a formulare le obiezioni che avverto e per le quali vedo in Lei un nemico, non mio, sia chiaro, ma di qualcuno che esiste: il resto sono quisquilie e pinzillacchere.
Sono perfettamente consapevole che quello che scrivo le sembrerà torbido, una sorta di teatro, soggetto a quei soliti clichés che mi sono odiosi non meno che a Lei: per questo motivo non vorrei scrivere per «L’Herne» senza essere convinto di rispondere al cento per cento di ciò che scrivo.
La ringrazio ancora per la lettera
Le stringo cordialmente la mano

Józef Czapski
P.S. Ho telefonato a Kot , dice che ho ancora tempo per pensarci e scrivere. E visto che mi frullano in testa certe idee, non Le prometto e non mi impegno a nulla.
P.S. Mi chiede se ci diamo del Tu o del Lei. E come possiamo darci del tu, allorché nel midollo della nostra démarche e del nostro pensiero siamo nemici?
Traduzione di Luca Bernardini

di LUCA BERNARDINI
Nel 1949, nella sua casa di Buenos Aires, Witold Gombrowicz si interrogava su come divenire uno scrittore di fama mondiale. Aveva già tradotto in spagnolo, insieme ad alcuni amici argentini, Ferdydurke, uscito in Polonia nel 1937, e scritto il dramma Slub pubblicandolo in spagnolo (El casamiento). Convinto che le traduzioni dei due testi avrebbero reso più semplice la ricerca di un editore francese, chiese aiuto a Józef Czapski, pittore e scrittore che a Parigi aveva da poco pubblicato In una terra disumana, le memorie dei suoi viaggi attraverso l’Urss, alla disperata e inutile ricerca degli ufficiali polacchi fatti trucidare da Stalin nella primavera del 1940. In una lettera del 30 maggio Gombrowicz aveva affermato che quello era uno dei libri più forti che avesse mai letto, aggiungendo di essersi sottratto «a simili esperienze soltanto in apparenza, giacché in realtà ho sofferto in modo tragico la guerra e le sue conseguenze, allorché forse su un piano e in proporzioni diverse».

Gombrowicz aveva lasciato la Polonia nel luglio del 1939 imbarcandosi sul transatlantico Chrobry alla volta di Buenos Aires, dove arrivò il 22 agosto. Alla notizia del patto Molotov-Ribbentropp, aveva deciso di restare in Argentina e iniziato un’esistenza precaria e bohémienne, rompendo con la Polonia, l’emigrazione polacca e la letteratura, alla quale sarebbe tornato solo dieci anni dopo. Con la sua scelta di esilio, Gombrowicz era passato da una periferia culturale all’altra. In Argentina il suo rifiuto di osservare le forme delle conventicole letterarie – fossero anche prestigiose come quella di «Sur» – gli era costato un totale isolamento in ambito intellettuale: certi atteggiamenti avrebbero potuto essere forse perdonati a un Roger Caillois, non certo a un «pobre polaco». E Caillois era stato proprio colui che aveva dato un parere negativo per la pubblicazione di Ferdydurke in Francia. Per Gombrowicz un simile responso era più che prevedibile: sarebbe stato sciocco pretendere – spiegava a Czapski – che la grandeur francese, inamidata dalle più diverse «concezioni», facesse credito a un ignoto polacco i cui testi presentavano tutte le apparenze della panzana o del bluff.

Quando scrisse a Czapski, Gombrowicz non sapeva se egli fosse «un suo autentico lettore», ma era convinto che un libro tanto estraneo alla tradizione letteraria (sia per filosofia che per tecnica narrativa) come Ferdydurke si sarebbe rivelato un affare anche dal punto di vista editoriale. «Mi creda – aggiungeva – quest’operetta modesta ma intraprendente saprà farsi strada da sola, a patto che venga indirizzata alle porte giuste».
Né Czapski, ben inserito nell’ambiente intellettuale parigino del tempo, né Jerzy Giedroyc – direttore del mensile dell’emigrazione polacca Kultura – poterono o vollero fare molto per assicurare un’edizione francese del romanzo, che sarebbe uscito presso Juilliard soltanto nel 1958. In realtà, il motivo dello scarso impegno dimostrato da Czapski, nonostante nella risposta a Gombrowicz si definisse entusiasta di Ferdydurke, sembrerebbe essere radicato in una forma di diffidenza che avrebbe lasciato trasparire quando – quasi venti anni dopo – l’autore di Cosmo gli chiese di contribuire con uno scritto al «Cahier de l’Hérne» che Konstanty Jelenski e Dominique Deroux avevano intenzione di dedicargli. Gombrowicz non era più lo scrittore misconosciuto del 1947: era all’apice della fama. A partire dal 1955 pubblicava il suo Diario su «Kultura» e presso la casa editrice parigina Instytut Literacki, fondata da Giedroyc e di cui Czapski era una delle colonne portanti, erano usciti i suoi romanzi maggiori.

Alla lettera qui riportata seguì un fitto scambio epistolare, dove Czapski ammetteva che il suo primo incontro con Gombrowicz – a Varsavia nel 1933 o nel 1935 – lo aveva predisposto negativamente verso quel jeune vieux insopportabilmente costruito, da cui era impossibile «estrarre un tono naturale di voce». Mentre Gombrowicz veniva divorato dal mito che ormai lo circondava, Czapski esprimeva il desiderio di vederlo «nudo (…) devant le vide».