Che la moda sia ben più di un’arte esornativa e rappresenti uno dei più potenti dispositivi della modernità lo aveva già capito Giacomo Leopardi quando, nel Dialogo della Moda e della Morte – non a caso la sua prima opera a essere stata tradotta in inglese – rintracciava nella caducità e nella rincorsa dell’effimero la matrice comune dell’una e dell’altra.
Nel declinare l’antico topos della vanitas vanitatum in chiave radicalmente laica, e nell’includere nel dominio della moda la letteratura e lo stile di vita, Leopardi apriva la strada a tutta la riflessione sugli intrecci tra moda e modernità che sarebbe stata condotta nel Novecento da Simmel, Benjamin, Barthes, Baudrillard, Girard, Pasolini, Bourdieu, tra gli altri. Ma è dagli anni cinquanta che il discorso della e sulla moda ha prodotto una prospettiva teorica capace di illuminare i percorsi attraverso i quali il corpo rivestito produce significato e valore sociale nei diversi contesti culturali, arrivando a organizzarsi in una disciplina dotata di un proprio regime epistemologico e metodologico.

Ciononostante, che un ruolo propulsivo nella genesi e nello sviluppo dei Fashion Studies contemporanei sia stato svolto dal Modernismo lo illustra per la prima volta in modo sistematico Natasha’s Dress Language of Literature, Language of Fashion, l’ultimo saggio di Paola Colaiacomo, appena uscito per Peter Lang (pp. 280, 40 sterline).
Da sempre a disagio rispetto a quelle analisi sociologiche che osservano il perpetuo oscillare della moda fra tradizione e innovazione, con scarso interesse al piacere indumentale e alle strutture della sensibilità che lo sorreggono, Colaiacomo riparte proprio dall’indagine capillare di quel piacere – nelle forme in cui esso viene distillato e messo in circolazione dalle riviste di moda negli anni compresi tra le due guerre –, che appare oggi consustanziale al prodursi del nuovo sguardo sul mondo elaborato dal Modernismo nei primi due o tre decenni del ventesimo secolo.

Prima ancora di fornire ai Fashion Studies un oggetto di ricerca, dunque, il Modernismo ha offerto loro un metodo di analisi. «Sfogliando le pagine di Vogue, di Harper’s Bazaar, di Vanity Fair tra gli anni dieci e i quaranta, si è colpiti dalla graduale appropriazione di tropi della letteratura condotta attraverso la mediazione della fotografia». Un’appropriazione che presenta tutti i tratti della «profanazione», nel senso ludico e creativo attribuito al termine da Giorgio Agamben: «profanare – scrive appunto in Profanazioni – non significa soltanto abolire e cancellare le separazioni, ma farne un uso nuovo, imparare a giocare con esse».

È grazie all’appropriazione-profanazione dello sperimentalismo di Roger Fry, Virginia Woolf, Katherine Mansfield, Francis Scott Fitzgerald che, in un paio di decenni, la rivista di moda passa dal muto al sonoro, trasfigurando i corpi rivestiti delle modelle (prima mortificati da sfondi vuoti e scarne didascalie) in oggetti d’arte dotati di un’aura, emanazioni di un passato rimosso e, insieme, contrassegni di una abbagliante attualità. Del percorso sottotraccia che converte il giornale di moda in strumento educativo e mezzo di comunicazione di massa, e il fenomeno Bloomsbury in «una scuola di bellezza permanente», il volume non analizza tanto la sequenza cronologica quanto il coagularsi dei vecchi e nuovi mezzi espressivi – critica d’arte, fotografia, pittura, giornalismo, cinema, romanzo, racconto – intorno a un nucleo epistemologico unificante che investe la dissoluzione dei concetti di identità e tempo lineare nonché la ricerca di stili alternativi al realismo mimetico.
Parallelamente alla fotografia surrealista e alla letteratura modernista, il linguaggio della moda prospera sulla distanza tra l’io e la sua immagine e su quella forma di reincanto del corpo, oppure, all’opposto, di disgusto e disincarnazione, che la percezione di questa distanza è in grado di indurre. Giustamente, Paola Colaiacomo rintraccia il punto d’origine ideale di questo scollamento in Uno, nessuno e centomila, il romanzo dalla lunga gestazione nel quale Luigi Pirandello volge in tragedia della follia la scoperta di quel territorio liminale tra immagine corporea e immagine mentale che negli stessi anni svelava al linguaggio della moda e della pubblicità possibilità espressive illimitate.

Pagine dense sono dedicate a illustrare «le ragioni di un titolo russo» – Natasha’s Dress – che suggestivamente apparenta Virginia Woolf a Diana Vreeland sulla base della comune passione per la scrittura di Tolstoj. Se alla cultrice dei «momenti di essere» il romanziere russo era apparso come il precursore della «scrittura esteriore», che procede dall’esterno all’interno, alla leggendaria curatrice di Harper’s Bazaar e di Vogue, che in una storica mostra al Metropolitan Museum di New York del 1973 rilanciava la moda «inventiva» dei primi tre decenni del Novecento, i romanzi di Tolstoj avevano offerto un balsamo prezioso contro i danni del nomadismo che aveva caratterizzato la sua esperienza della modernità e della guerra.

Nell’orizzonte dichiaratamente benjaminiano nel quale si muove Paola Colaiacomo, allora, l’abito di Natasha stampato in copertina – riproduzione del noto scatto di Cecil Beaton che ritrae Audrey Hepburn nel suo sobrio abitino nero, in una posa respingente e insieme ammiccante – allude all’intera costellazione di mutazioni e transcodificazioni indumentali, stilistiche e culturali che, dal vestito da ballo di Guerra e Pace, indissolubilmente associato al diafano corpo della Hepburn nell’omonimo film del 1956, attraverso la mediazione di quell’icona di evanescenza metropolitana che è Holly Golightly (protagonista del romanzo di Truman Capote e del cult movie Colazione da Tiffany), conduce all’abito pronto moda, acquistabile su internet a costi contenuti.
Intimamente compenetrata nel proprio oggetto, felicemente affabulatoria e mai dogmatica, la scrittura di Paola Colaiacomo persuade ancora una volta con la sola forza dello stile, come fa – del resto – l’eleganza minimal dell’abito di Natasha.