Alla faccia della globalizzazione, in Italia si sta ricreando, seppur esile, una filiera della lana 100% italiana. È stata florida fino agli anni ’40, si è ridimensionata negli anni ’80, e poi, nell’arco di pochi anni, ha dovuto soccombere alla concorrenza dei mercati globali e alle de-localizzazioni nell’Est europeo e in Cina. Sembrava impossibile tornare indietro, ma grazie a progetti di ricerca, ad aziende tessili di nicchia e ad allevatori che chiedono di valorizzare il proprio prodotto, oggi in Italia si può ancora creare un abito sartoriale 100% made-in-Italy.

Il vello delle nostre pecore da latte, circa 8 milioni, difficilmente può competere per quantità e qualità con quello delle pecore da lana iper-selezionate dei pascoli australiani o neozelandesi. Lana e latte sono due prodotti proteici: un animale selezionato per produrre buon latte avrà un vello di minor valore, e viceversa. Tuttavia anche le pecore da latte vanno tosate ogni anno e dalla tosatura si ricavano in Italia circa 15 milioni di kg di lana in gran parte grossolana, che ha trovato uno sbocco solo in India, dove viene impiegata nella tessitura dei tappeti. In quei 15 milioni di kg di lana nazionale ce n’è una parte che, opportunamente valorizzata, potrebbe diventare più remunerativa e quindi una fonte di reddito integrativo per gli allevatori. Purché qualcuno abbia interesse a lavorarla.

A Biella, accanto ai grandi marchi dei tessuti più pregiati, prodotti per lo più con lane Merino dall’emisfero australe, è nato il consorzio Biella The Wool Company, proprio per lavorare la lana tosata dai piccoli allevatori italiani ed europei. »È una filiera che si è ricreata da sola, noi non abbiamo fatto nulla – ci spiega Nigel Thompson, esperto di lana sucida, cioè appena tosata, un inglese che da 40 anni lavora nel settore e che oggi presiede il consorzio – se non rispondere a una domanda che è venuta dagli allevatori stessi. Del resto, che senso ha svendere la lana o, peggio, buttarla via?»

Nel consorzio biellese la lana italiana viene selezionata, lavata, pettinata, filata, tinta e restituita in gomitoli agli allevatori che poi la rivendono o utilizzano. «Oggi raccogliamo piccoli quantitativi di lana provenienti dall’Italia e da altri paesi europei di 100 razze diverse di pecore. Se lo avessi detto solo 10 anni fa sarebbe sembrata una cosa ridicola», sorride Thompson.

Ridicola per come è strutturato il settore della lana nel quale, tra il mondo agricolo (molto frammentato e diffuso sul territorio) e l’industria (necessariamente grande per il tipo di macchinari impiegati e concentrata in pochi distretti), ci sono gli intermediari, cioè i commercianti della lana che fanno da barriera e decidono cosa conviene o non conviene comprare e vendere. «Bisogna superare questa barriera, questo vero e proprio muro – dice Thompson – e si potrebbe fare se gli allevatori, opportunamente indirizzati e guidati, riuscissero a creare una rete di centri di raccolta, come esiste in Inghilterra, alla quale tutti potrebbero conferire la loro lana. Penso a una rete che sia gestita dagli allevatori stessi, però, che diventi anche luogo di informazione e formazione, che li aiuti a migliorare la qualità e a ricreare quella cultura della lana che negli anni si è persa. Del resto dall’Unione Europea la lana è sempre stata considerata un sottoprodotto, se non addirittura un rifiuto. Nella PAC non si parla nemmeno di fibre e quindi è normale che i pastori non si siano più occupati né della selezione delle pecore da lana e tantomeno della qualità dei velli».

Negli ultimi 10-15 anni, alcuni progetti mirati alla valorizzazione della lana nazionale hanno dimostrato che esistono potenzialità per il settore. Come quello per il recupero della pecora Sopravvissana, razza ottenuta dagli incroci fatti nel corso del 1700 tra la pecora marchigiana Vissana e gli arieti Merinos Rambouillet di proprietà del Papato, quando gli animali multi-funzionali, in grado di fornire latte-carne-lana di buona qualità, erano un valore per le fattorie. Grazie ad un progetto dell’Università di Camerino e della Regione Marche, la Sopravvissana è stata incrociata con Merinos neozelandesi con l’obiettivo di migliorare la qualità del vello. Qualità che ha attratto l’attenzione del lanificio Bottoli di Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, uno dei pochissimi a produrre tessuti e confezioni 100% made in Italy. «Selezioniamo e sosteniamo i migliori greggi di lane Merino italiane delle razze Sopravvissana e Gentile di Puglia, rappresentate da alcune decine di migliaia di pecore nell’Appennino – ci spiega Roberto Bottoli – Siamo partner dei nostri pastori per la passione del vero made in Italy e per la soddisfazione di ottenere tessuti eccellenti che sfruttano le caratteristiche di queste lane, come la resistenza, cioè il potere gonfiante, che limita lo “stropicciamento” del tessuto e permette la filatura e tessitura di tessuti sportivi ad alte performance. Ci teniamo anche a mantenere una filiera di antichissima tradizione che contribuisce ad attenuare lo spopolamento e l’abbandono delle aree più disagiate dell’Appennino ed alcune zone prealpine. Per questo, sul Gran Sasso abbiamo per alcuni anni bandito un premio per il più fine lotto di lana italiana». Una selezione così accurata permette a Bottoli di produrre, con le lane italiane, anche una linea di tessuti naturalmente colorati, senza utilizzo di tinture o prodotti chimici, sfruttando le tonalità naturali dei velli.

A credere nella potenzialità della lana italiana è un altro industriale biellese, Giovanni Schneider, che lava e pettina anche piccole quantità di lana (100-150kg) poi filata altrove. «Conosco piccoli progetti di filiera della lana italiana con un ottimo ritorno commerciale, pur essendo di qualità più bassa e costi di produzione più elevati a causa dell’inefficienza di un settore così frammentato sul territorio – dice – quello che è mancato finora è stata la possibilità o la volontà degli allevatori di fare rete. Un esempio a cui ispirarsi potrebbe essere quello dell’Harris Tweed, prodotto nelle isole Ebridi esterne della Scozia, dove tutta la lana viene conferita ad un’unica fabbrica per essere lavata e filata, per poi ritornare ai tessitori che la lavorano in modo artigianale su piccoli telai ed essere commercializzata con un unico marchio che ne tutela la qualità e il valore».