Daniel Pennac, da bambino, accoglieva il sole che filtrava la mattina dalle finestre con gioia e leggeva Alexandre Dumas, convinto che un autore in grado di produrre migliaia di pagine fosse una fonte inesauribile di evasione per chi, come lui, era prigioniero in un collegio («andavo a casa una volta a trimestre, se non ero stato punito»). Quando invece si sedeva fra i banchi e apriva i libri di testo, soffriva. Studente per niente modello, era paralizzato dalla paura del fallimento (ha raccontato la sua esperienza tragicomica in Diario di scuola, 2007) e, una volta divenuto insegnante, non ha mai dimenticato quel suo impatto disastroso con la didattica: «Ho alle mie spalle uno svariato numero di anni con difficoltà – confessa – Rispetto a molti miei colleghi, in classe non applicavo solo la teoria, potevo contare su un vissuto in prima persona. Nei primi anni del mio mestiere, ho tentato di far guarire i ragazzi dallo shock, non esiste chiavistello più resistente per bloccare l’accesso alla conoscenza della paura». Pennac è stato professore per ventisette anni, spesso in cattedra in aule composte di alunni sotto sorveglianza giudiziaria o con ragazzi riluttanti alle regole. Così, si è divertito a «spacciare» senza sosta Calvino, Il Barone rampanteIl visconte dimezzatoIl Cavaliere inesistente, creando delle «vere e proprie passioni calviniste o anti-calviniste», scherza.

Fra gli stand della Fiera di Bologna – dove sbarcò la prima volta nel 1997 accompagnato da quell’editore illuminato che era Pierre Marchand, inventore della «linea jeunesse» per Gallimard fin dagli anni Settanta – Daniel Pennac è una presenza di punta di Feltrinelli con Ernest e Celestine, di cui ha sceneggiato il film e che descrive come «una rivoluzionaria storia di amicizia fra un grosso orso e una topolina». La considera una novella anche per adulti, dato che ha la forma del meta-romanzo e chiama il lettore a un ruolo interattivo, svelando i meccanismi del raccontare. Ma lo scrittore è in città anche per un altro motivo: una lectio magistralis per onorarela laurea in pedagogia che gli ha conferito l’università. Pennac, però, ci tiene a fugare ogni dubbio: «Non mi considero un educatore, quando scrivo cerco di essere me stesso, non ho intenti moralistici. La letteratura non ha funzioni pedagogiche, tantomeno quella destinata all’infanzia. Casomai, leggere può indurre un bambino a porsi delle domande. Il momento magico scatta quando chiede: “mi racconti una storia?”. È lì che entra nella letteratura, che comincia a tessere i propri sistemi e punti di riferimento rispetto al mondo. Fino al giorno in cui sperimenta l’evento fondamentale: il passaggio dal seno al senso».