Cyrille Aimée è nata a Samois sur Seine, paesino tra Parigi e Fontainebleau, dove ogni anno si tiene il Django Reinhardt Festival, in onore del chitarrista gypsy di casa negli primi anni Cinquanta con la sua roulotte-abitazione. E ispirandosi al sound gitano di Django, come alla canzone jazz di Sarah Vaughan, la giovane Cyrille inizia a esibirsi con successo, per compiere quindi una scelta azzardata ma inevitabile: il definitivo trasferimento a New York City dove, a memoria, resta l’unica vocalist francese, dopo Edith Piaf, a ottenere positivi riscontri da pubblico e critica, sia pur entro le nicchie dei night club e dei jazz festival.

Dal 2009 ad oggi ha pubblicato dieci album: dal primo Cyrille Aimée and the Surreal Band alla coppia Smile e Just the Two of Us firmati assieme a Diego Figueiredo, dai due concerti di Manhattan Live at Small’s e Live at Birdland all’esperienza Burstin’ Out con la Chicago Jazz Orchestra fino al contratto con la prestigiosa Mack Avenue, per la quale sono finora usciti It’s a Good Day e Let’s Get Lost pochi mesi fa. L’incontro con Cyrille rivela di lei una personalità simpatica e esuberante.

Buongiorno Cyrille, parliamo un po’ del nuovo album?
Si chiama Let’s Get Lost e l’ho registrato con lo stesso gruppo del disco precedente. Tuttavia, almeno per me, It’s a Good Day era piuttosto solare, mentre Let’s Get Lost lo sento come più lunare, e decisamente più maturo.

Ascoltando i tuoi dischi si avvertono chiaramente parecchi richiami agli stili jazz dal vocalese, al manouche, dal bebop allo swing; è una scelta consapevole?
Sì, ci sono davvero influenze assai differenti nella mia musica. Ma vorrei aggiungere, oltre il jazz, anche il pop e la musica latina, tutti stili che io amo e che affronto spesso sia in sala di registrazione che dal vivo.

Come ti trovi a lavorare, da francese, con i ritmi e i suoni afroamericani?
Mia madre è originaria della Repubblica Dominicana e fin da quando ero bambina ballavo la salsa, il merengue, la bachata. Sono cresciuta in una famiglia che amava ballare e sin da giovanissima ho iniziato ad apprezzare tutti gli stili musicali popolari. Poi, quando ho incontrato i gitani a Samois, avevo più o meno 14 anni, ho scoperto il jazz e l’improvvisazione. E questo ha fatto crescere in me il desiderio di stabilirmi negli Stati uniti per imparare a fondo il jazz.

Ma c’è un ricordo particolare sulla musica che ti porti dietro dall’infanzia?
Sì, mia madre che balla!

Per il jazz è meglio l’istinto o la riflessione?
Non ho dubbi. Anche se la tecnica ha ovviamente la sua importanza e non si può prescindere da essa, senza l’istinto trovo che il jazz non esista…

I tuoi maestri nella storia del jazz e i tuo disco del cuore?
Estenderei il concetto: resto incantata ascoltando Django Reinhardt e adoro Ella Fitzgerald. Ma trovo geniale anche Michael Jackson… L’album? Non ho dubbi, è quel capolavoro di Miles Davis che risponde al nome di Kind of Blue..

Ci sono stati o ci sono due momenti che ritieni decisivi nella tua carriera artistica?
Direi tutti, anche il più piccolo concerto mi è servito a crescere. E poi non posso non sottolineare la difficoltà di sbarcare il lunario facendo jazz. Bisogna ricordarsi spesso quando si scende o si cade, perché a volte capita…

Come vedi il rapporto tra jazz e società?
Bisogna sempre calarsi nella contemporaneità, e non è assolutamente una cosa facile. Nella musica come nella vita di tutti i giorni.

E adesso, in questi giorni, cosa stai facendo?
È un momento di grande ispirazione e così ne approfitto per scrivere canzoni. Voglio comporre molta musica per il prossimo album.