«Due anni fa fui arrestato dalla polizia palestinese e chiuso in cella per sette giorni. Mi accusarono di aver violato la Cyber Crimes Law, ossia di aver commesso dei crimini attraverso internet criticando sui social il presidente (Abu Mazen), il premier e ministri dell’Autorità nazionale palestinese». Issa Amro racconta al manifesto una delle pagine più buie della sua vicenda di attivista per i diritti dei palestinesi. «Ero abituato all’oppressione da parte delle forze israeliane – prosegue Amro, noto per le sue battaglie a difesa dei palestinesi di Hebron -, avevo messo in conto che la mia denuncia dell’occupazione militare israeliana mi sarebbe costata più volte l’arresto e la detenzione. Ma non avrei mai immaginato che, per le mie opinioni, mi avrebbero messo le manette anche gli agenti della polizia palestinese». Il caso di Issa Amro tornerà nell’aula del tribunale di Hebron il 27 novembre. Se l’attivista sarà giudicato colpevole per lui potrebbero aprirsi di nuovo le porte del carcere. E per gli stessi reati presto altre persone rischieranno la prigione.

 

Nei giorni scorsi la Corte distrettuale di Ramallah, su richiesta della Procura, ha ordinato la chiusura di 49 tra siti e account di social  – che avrebbero pubblicato materiale «pericoloso» per la sicurezza nazionale – nel rispetto della Cyber Crimes Law, la legge contro cosiddetti crimini  cibernetici approvata nel 2017 tra le proteste di giornalisti, blogger e altri operatori dell’informazione. Molti dei siti e delle pagine social sono critici della linea del raìs Abu Mazen e dell’Anp. Alcuni invece sono collegati al movimento islamico Hamas o all’ex alto dirigente del partito Fatah, ora in esilio, Mohammed Dahlan, che da otto anni fa la guerra al presidente.

 

«Siamo al massacro della libertà di parola e di espressione», avverte la Federazione nazionale della stampa palestinese che ha mandato in strada, davanti alla sede dell’Alto Consiglio giudiziario a Ramallah, dozzine di giornalisti a reclamare la revoca dell’ordine. Oggi i giudici riesamineranno la decisione. «Mi auguro che il provvedimento sia annullato, perché viola la libertà di espressione e di opinione. Per noi giornalisti queste sono corde delicate. Le autorità dovrebbero premiare la stampa invece di bloccarla e reprimerla», protesta Nasser Abu Bakr, il presidente della Federazione.

 

La procura respinge le accuse. Afferma che la decisione di chiudere i 49 siti e pagine Facebook è stata presa dopo che il suo ufficio aveva ricevuto denunce contro questi siti gestiti in modo anonimo e con fonti di finanziamento sconosciute. Ma la giustificazione non ha convinto nessuno e persino il governo dell’Anp ha criticato la mossa della magistratura affermando che la libertà di stampa e di opinione va rispettata. Una presa di posizione importante ma che non cancella gli abusi subiti in passato da giornalisti e blogger da parte dei servizi di sicurezza dell’Anp. Così come fanno sorridere le critiche alla magistratura a Ramallah che arrivano da Hamas. A Gaza la polizia del movimento islamico è accusata di tenere il fiato sul collo della stampa locale e nei giorni scorsi ha arrestato il reporter Hani al-Agha, colpevole di aver criticato le autorità sui social. Sorte simile è toccata in Cisgiordania al giornalista Radwan Qatanani di Nablus.

 

La mobilitazione contro la Cyber Crimes Law nel frattempo va avanti, con la partecipazione di docenti universitari,  organizzazioni per i diritti umani, partiti politici, con in testa il Fronte popolare (sinistra), e tante persone comuni. Ed è stata lanciata anche una campagna online con l’hashtag #BlockingisACrime.