Nel ricordo di Nicola Del Roscio, dal 1965 collaboratore di Cy Twombly (Lexington 1928, Roma 2011), c’è anche l’immagine dell’artista americano, avanti negli anni, intento a fotografare il cimitero caraibico di Saint-Barthélemy, dove trascorse l’inverno del 2010 intervallando soggiorni a Lexington e Gaeta. Rallentato nei movimenti, Twombly ritrovava nella polaroid quell’immediatezza e quel vigore espressivo che apparteneva al suo passato. La fotografia a colori -, di cui è autore Del Roscio – pubblicata nel catalogo della retrospettiva Cy Twombly, curata da Jonas Storsve al Centre Pompidou di Parigi (fino al 24 aprile 2017) lo ritrae con il cappello, la camicia quadrettata e le consuete bretelle, assorto nel momento dello scatto.

«Aveva un’infatuazione per quel cimitero sul mare, forse perché era dipinto a calce. Twombly si era ispirato molto a Mallarmé e Valéry nell’uso simbolico del bianco che adottò soprattutto per le sculture, perché unifica, toglie i difetti, fa galleggiare», afferma il presidente della Cy Twombly Foundation, nonché della Fondazione Nicola Del Roscio che si occupa anche dell’archivio fotografico. La mostra (la seconda dedicata all’artista americano dopo quella del 1988), organizzata grazie alla collaborazione delle due fondazioni e di Alessandro Twombly, figlio dell’artista e di Luisa Tatiana Franchetti, raccoglie anche una selezione di «assemblaggi» o «ibridazioni». Opere realizzate con materiali di recupero (spesso legni portati dal mare), coperti con uno strato di pittura bianca che l’artista considerava il suo marmo. Il bianco è una componente cromatica essenziale anche nelle prime fotografie che Twombly fece nel 1951, quando si iscrisse al Black Mountain College: qui studiò fotografia con Hazel-Frieda Larsen e conobbe Aaron Siskind portavoce dell’idea di «fotografare senza preconcetti». A quell’epoca le sue sperimentazioni si focalizzavano nell’uso del foro stenopeico (o pinhole), una scatola dotata di un piccolissimo foro che, con lunghi tempi di esposizione, lascia filtrare la luce la quale, seguendo una linea retata si va a depositare sul materiale fotosensibile.

Di quel periodo sono cinque immagini dal titolo Still Life, Black Mountain College, esposte nella sala che ospita la serie di disegni Sans titre (Grottaferrata) realizzati nel ‘57, durante il soggiorno ai Castelli Romani nella villa dell’amica Betty di Robilant (accanto c’è il coevo ritratto fotografico che le fece l’artista). In queste fotografie, così come nelle sei della serie Table, chair and cloth (Tétouan) – scattate nel ’53 durante la fase conclusiva del viaggio in Nordafrica, quando con Bob Rauschenberg aveva fatto visita a Paul Bowles a Tangeri – la presenza degli oggetti (bottiglie e contenitori di vetro, sedia, tovaglia) è registrata con una progressiva comparsa/scomparsa di elementi.

L’aspetto seriale della sequenza è una prerogativa del pensiero e dell’opera del grande interprete della mitologia e della cultura classica, come appare evidente nei tre cicli pittorici intorno a cui si snoda la retrospettiva: Nine Discourses on Commodus (1963), proveniente dal Guggenheim Bilbao; Fifty Days at Iliam (1978) dal Philadelphia Museum of Art e Coronation of Sesostris (2000) dalla Collezione Pinault. Per la prima volta opere come queste dialogano con le fotografie, aspetto ancora non del tutto esplorato del lavoro di Twombly, malgrado mostre e pubblicazioni.

«Non lavorava tutti i giorni, leggeva molto, preparava degli sketch. Poteva stare seduto davanti alla tela per ore, giorni, anche settimane. Solo quando, nella sua mente, aveva completato l’immagine, allora scattava e andava avanti finché l’opera non era finita». La vocazione alla velocità era una necessità per Cy Twombly che tra le tecniche fotografiche trovò nella polaroid SX70 il mezzo più consono per interpretare la realtà. Avvicinarsi molto al soggetto determinava spesso un risultato di fuori fuoco di memoria pittorialista, che asseconda una visione misteriosa e «magmatica» del soggetto, con la complicità della palette di colori desaturati.

«Ci teneva molto alle polaroid che disponeva in una certa maniera – ricorda ancora Del Roscio – Aveva le sue cassettine dove le sistemava e dopo qualche tempo le ritirava fuori, le arrangiava e, nuovamente, le riponeva. Alla fine della sua vita passava il tempo con quelle polaroid. Era come giocare al solitario e, quando scattava, era sempre molto entusiasta. Gli veniva quasi l’affanno, usciva fuori tutta l’emotività». L’immediatezza, però, coincideva raramente con la casualità, perché nello sguardo di Twombly sembra esserci sempre la volontà di mettere in posa i suoi soggetti, come nella serie Lemons (Gaète) del 1998-2008, in cui la presenza fisica degli agrumi (limoni, aranci e specie particolari come il citrus medica, detto anche Mano di Buddha) si connota di forte sensualità. Questi frutti, come i fiori provengono dall’orto botanico creato da Nicola Del Roscio intorno alla sua casa di Gaeta: conta oltre 150 specie di palme, i cui semi sono stati raccolti dal proprietario in luoghi diversi.

Quanto alla tecnica di stampa, negli anni ’90 per caso in una copisteria di Lexington, Twombly rimase affascinato dalle fotografie fotocopiate che erano attaccate a un vetro. Incuriosito da quella tecnica, iniziò ad adottarla per riprodurre le sue fotografie, facendole stampare successivamente presso l’Atelier Fresson di Parigi. Aveva scoperto che quel vecchio laboratorio continuava a lavorare in bianco e nero, secondo il tradizionale metodo di stampa al carbone introdotto alla fine del XIX secolo da Theodor Fresson. Al colore si arrivò solo nel ’52 con l’intuito di Pierre Fresson. La durata nel tempo è assicurata grazie alla qualità di pigmenti insolubili e stabili alla luce, intaccando quell’impercettibile fremito che attraversa le immagini di Cy Twombly.