Nel 2005 Salvatore Cuschera pubblica, in rame, piombo e ferro patinato, un Piccolo stiacciato di Donatello con memoria di colore. Si tratta di un assemblaggio di lastre metalliche sovrapposte in modo irregolare a comporre un’intensa visione frontale, una breve e compatta barriera. Quel che colpisce è, soprattutto, la memoria di colore, il sussurro, lungo i margini fessurati di alcune delle lastre, di quelle tinte primarie (rosso, giallo, blu) che nella stagione dell’affermazione milanese dello scultore siciliano, gli anni novanta, avevano tenuto il campo, persino sfacciatamente, con le sue rivisitazioni, anche ironiche, della tradizione supematista e neoplastica. Questo colore sussurrato, che sembra riemergere da una ferita, rinnova curiosamente nella memoria l’impressione, al Museo dell’Acropoli, dinanzi alle labili rimanenze cromatiche nelle sculture del periodo severo. E proprio in quanto rimanenza, ma del Moderno, dell’Avanguardia, va inteso nell’arte recente di Cuschera, fino a un convincente Senza titolo del 2016, dove l’intenso impianto costruttivo è ammorbidito da una commozione di blu.
La parabola di Cuschera è oggi riassunta, con le consuete precisione di riferimenti e capacità di ‘posizionare’ l’artista, da Giuseppe Appella, in una monografia edita da Silvana Editoriale (pp. 223, euro 35,00). Se, a proposito delle lamiere e dei ferri verniciati a fuoco da Cuschera seguendo la tavolozza di Malevich e di De Stijl, Pietro Consagra aveva parlato di «esplosione» – «dato che ogni elemento ha un suo diverso colore, la scultura non vuole essere unificata» –, i colori sussurrati di parte della produzione ultima, invece, unificano, proprio nel sofferto riconoscimento della primazia centripeta del ferro. Insomma, il linguaggio moderno su cui si è plasmata l’opera di Cuschera negli anni novanta era in particolare, fuori tempo massimo, quello delle geometrie di colore russo-olandesi degli anni dieci-venti: il seguito sembra tutto contrassegnato da un titanico sforzo di aggiustamento teso a recuperare la scultura nella sua gravità metallurgica, al di là dei puri valori ottici cui quella tradizione lo aveva condotto.
Interessante, no?, come un artista geograficamente e generazionalmente dislocato rispetto alla dialettica storica delle influenze delle prime avanguardie, si riveli scoprendo e utilizzando, con una specie di mimesi atemporale, le risultanze a lui più congeniali di queste avanguardie, per poi, progressivamente – senza rinnegarle, ma selezionandole vieppiù secondo vettori poetici venutisi nel frattempo a precisare – ritirarsi nella fucina di Vulcano: come scrive Appella, «ritrova la forgia, le scintille volanti, i vapori acri dell’universo contadino», che aveva fatto proprio, durante l’infanzia e l’adolescenza, nelle escursioni lungo la Conca d’Oro.
Non poco deve avere contato, in questo complementare cammino à rebours, l’esempio di Giuseppe Spagnulo, di cui Cuschera è stato assistente a cavallo della metà degli anni novanta: Spagnulo, con la sua fede assoluta nella fisicità del materiale, ferro, e delle pratiche di officina, che quasi dettano l’agenda del processo creativo. A cementare in via definitiva il cambio di stagione è stato poi senza dubbio l’incontro con le frementi articolazioni cubiche del basco Eduardo Chillida, così fortemente segnate, nella tradizione del compatriota Julio Gonzalez, dall’esigenza di dare statuto superiore, rendendolo uno specie di dramma, al trattamento tecnico: Chillida, che Cuschera ha avvicinato personalmente, negli anni di formazione, in una Biennale veneziana, prima della visita – scena-madre del suo ricercare – alla casa-studio di San Sebastián, luglio 1999.
Frontalità: sappiamo che, nell’Italia del dopoguerra, è stato il siciliano Consagra a impostare, nel modo più consapevole e conseguente, il discorso sulla frontalità come via di uscita dalla retorica del monumento. Decentrare la scultura, trarla fuori dalla dittatura della forma autoconclusa, a tutto tondo, ha significato per lui, innanzitutto, trasferirla sul piano e innalzare questo piano, frastagliato pittoricamente, di fronte al riguardante: come uno scudo. Cuschera si allaccia a questa lezione ma non la subisce: dove Consagra è aereo, leggero, egli conserva la pesantezza, la potenza, la presenza. L’imposto frontale si avvale, quasi sempre, di fogli di lamiera di varia forma che si incastrano uno nell’altro alla ricerca di una figura legiferante, totemica. Vuol dire che, in qualche modo, ciò a cui la scultura ha rinunciato di solenne e definitivo, decentrandosi sul piano, lo recupera in quanto sigla ancestrale.
Un ruolo cruciale in questo senso lo ha svolto la fascinazione delle maschere africane, incrociate la prima volta non al Musée de l’Homme ma al Metropolitan: fascinazione che diede luogo, nell’autunno del 2000, a una mostra milanese, Galleria Mazzoleni Arte, in cui le opere di Cuschera erano messe a confronto con l’arte negra, da lui recepita nei suoi valori eminentemente plastici, o meglio nella sua figuralità plastica: come se Cuschera traducesse in scultura, per forza di istinto, quasi un secolo dopo, le coordinate strutturali della Negerplastik di Carl Einstein. Einstein: «La frontalità fa quasi sparire il volume agli occhi dello spettatore, e concentra tutta la forza espressiva su un solo lato dell’opera». La maschera è una specie di insegna formale del principio cubico insito, secondo Einstein, nella concezione spaziale dell’arte africana. Un’insegna alla quale Cuschera rende omaggio non passivamente, ma riattivandola attraverso un persuasivo processo di ricodificazione: il punto di partenza «realistico» della maschera – volto umano, maschile o femminile – è smembrato nelle sue componenti strutturali, astrazioni plastiche che, poi riassemblate secondo un principio di traenze a contrasto creanti blocco, tornano a ‘figurare’ in codice, con effetto magico-evocativo. In questa logica anche un Omaggio a Paul Klee, 2015, si tiene sugli scudi di una tribù africana, forse del Baulé, regione del Bouaké, Costa d’Avorio.