La notizia riferita dal quotidiano al Sharq al Awsat è passata pressoché in sordina ‎malgrado la sua importanza. Le Forze democratiche siriane (Sdf), la potente ‎alleanza nel nord-est della Siria formata da combattenti curdi e arabi, armata e ‎addestrata dagli Stati uniti, si dicono pronte ad aprire il dialogo con il governo a ‎Damasco e il presidente Bashar Assad. Uno sviluppo di assoluto rilievo ma non ‎inatteso perché è una conseguenza diretta di considerazioni politiche e strategiche ‎ovvie vista la situazione nel Paese, nonché una reazione al via libera dato ‎dall’Amministrazione Trump all’espansionismo turco e all’offensiva lanciata a inizio ‎anno da Ankara contro Afrin. Il Consiglio democratico siriano (Dsc), braccio ‎politico delle Sdf, ha proclamato la volontà di avviare ‎«colloqui incondizionati‎» ‎con il governo siriano e l’impegno a partecipare a una soluzione negoziata per porre ‎fine al conflitto in Siria. Parlando all’agenzia di stampa francese Afp, Hekmat Habib, ‎a nome Dsc e delle Sdf ha confermato l’intenzione di ‎«aprire la porta al dialogo‎» ‎con Damasco. ‎«Tenendo conto del controllo che le nostre forze hanno sul 30% ‎della Siria e del fatto che il regime ora ha piena autorità su buona parte del Paese, ‎appare chiaro che queste due sono le uniche due forze che possono sedersi al tavolo ‎di negoziati e formulare una soluzione alla crisi siriana», ha spiegato Habib.

‎ A spingere i curdi, o gran parte di essi, a proclamarsi pronti al dialogo con il ‎governo centrale è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, ossia ‎l’accordo raggiunto da Washington e Ankara per il ritiro delle forze curde da ‎Manbij. Accordo che consente a forze statunitensi (almeno 2mila uomini secondo ‎alcune fonti) e turche di pattugliare la città della Siria settentrionale e i confini, ‎sebbene siano state le Sdf a strappare nel 2016 la città dall’Isis al termine di ‎un’offensiva costata pesanti perdite. Un’intesa letta come un tradimento delle ‎aspirazioni curde che gli Usa avevano fatto capire di voler aiutare a realizzare, ‎almeno in parte. Invece non appena è crollato lo Stato islamico (Isis) in Iraq e Siria ‎grazie anche al sacrificio dei combattenti curdi, l’Amministrazione Trump è tornata ‎subito ad assecondare i desideri della Turchia membro della Nato anche per ‎allentare le tensioni con Ankara emerse negli ultimi anni. ‎

‎ A preparare il terreno alla possibile apertura di colloqui ufficiali tra curdi e ‎governo centrale, è stata anche l’intervista rilasciata il mese scorso da Bashar Assad ‎alla rete televisiva russa RT. Facendo uso del bastone e della carota, il presidente ‎siriano ha lanciato una sorta di ultimatum ai combattenti delle Sdf: ‎«Siamo disposti ‎ad aprire le porte del negoziato perché la maggior parte di loro sono siriani che ‎amano il loro Paese e non vogliono essere marionette degli stranieri‎», ha detto ‎Assad, aggiungendo subito dopo «Altrimenti, ricorreremo alla liberazione di quelle ‎zone con la forza, è la nostra terra, è nostro diritto ed è nostro dovere liberarla. Gli ‎americani devono andarsene, in qualche modo se ne andranno‎». Dovessero andare in ‎porto i negoziati per lo status del Rojava e del nord della Siria tra Dsc-Sdf e il ‎governo, si potrebbe aprire la strada ad una soluzione vera per la Siria. Tenendo ‎conto anche che le forze armate governative, dopo aver ripreso il controllo dei ‎sobborghi meridionali ed orientali di Damasco, sono ora impegnate a strappare il ‎sud del Paese alla galassia di gruppi jihadisti e qaedisti che da anni ha il controllo ‎dell’area. Damasco è pronta a lanciare una ampia campagna militare non appena avrà ‎ragione dei miliziani dell’Isis che tengono il controllo della città di Sweida. ‎L’esercito siriano inoltre sta rafforzato la propria difesa antiaerea vicino alle Alture ‎del Golan, dispiegando il sistema russo antiareo Pantsir in grado di contrastare con ‎più efficacia i raid dell’aviazione israeliana. ‎