Chi scrive ha avuto la ventura di affrontare, da medico, epidemie come l’ebola e l’HIV nei luoghi in cui sono nate, quell’Africa in cui il morbillo è ancora il morbo più letale nell’infanzia, anche se esiste da molto tempo un vaccino che, però, la povertà rende indisponibile. E riprendendo alcuni temi proposti dall’editoriale di Tommaso Di Francesco di martedì, è evidente che la malattia, il “patologico”, contrapposto al “normale”, al sano, ma soprattutto il continuo passaggio tra i due stati, sono categorie e definizioni che l’attuale emergenza coronavirus ripropone con forza, anche alla luce della subordinazione del pensiero scientifico al modello dominante.

Il bioliberismo, la forma attuale e cogente della biopolitica, tende infatti al controllo della vita, trasformandola in merce. Il vivente può e deve essere brevettato, dunque privatizzato, sottoposto alla legge del profitto. Di più, possiamo dire che il biopotere si misura proprio sull’impostazione stessa della ricerca scientifica e nelle conseguenti definizioni di salute o malattia.

In realtà noi viviamo sempre tra i due stati, che non si possono definire separatamente ed in modo oggettivo, se non arbitrariamente. Ecco che, invece, la scienza dominante, estremizza il patologico ed il normale per ridurre l’oscillazione delle singole vite a queste polarità che esso stesso pretende di definire, e dunque governare, in nome e per conto della sua asservita obbiettività. In sintesi il tentativo è quello di “patologizzare” il quotidiano, passando dal “disturbo” cioè dalla normale altalena tra i due stati, al patologico perpetuo, alla paura di essere sempre ammalati, con conseguente affidamento ad una oggettività della scienza che ci espropria di quel singolare strumento di conoscenza che è appunto il passaggio continuo e soggettivo tra il “normale” ed il “patologico”.

Oggi, a fronte dell’emergenza, non a caso definita tale, da coronavirus, il peso di una scienza tutta inclinata verso questa prospettiva, dovrebbe risultare ancora più chiaro, e spingere a riflessioni radicali proprio sull’impostazione stessa delle soluzioni. “La scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle” diceva Merleuau-Ponty.

Vediamo come tutti i tentativi di definire l’oscillazione, dunque di ridurre una metamorfosi continua ad un semplice scatto tra gradienti, servono soltanto per affinarla come strumento di espropriazione del vivente dal contatto con la sua stessa vita. La Dioptrique di Cartesio è l’esempio più chiaro e primigenio di questa visione che confonde la rilevazione dei fenomeni con i fenomeni stessi, piegando il soggettivo ad un oggettivo che in realtà rileva solo se stesso. Oggi, lo sappiamo, è il Mondo, e non solo l’individuo, ad essere ammalato. E dunque per prenderci cura di noi stessi, siamo oggi necessitati a curarci del Mondo.

La realtà è malata, è la sua normalità la principale causa di patologie gravi; ce lo dice, attraverso le sue manifestazioni più espressive, architettoniche, urbanistiche, esistenziali, politiche, produttive, consumistiche, sociali, belliche. Curare l’individuo senza curarsi del Mondo è creare altra patologia: lo scopo principale dell’industria farmaceutica il cui scopo è vendere le medicine ai “sani” spacciandole per prevenzione. Ecco perché la riflessione sul normale e sul patologico, sul rifiuto della normazione “scientifica” al servizio del biodominio, è squisitamente politica.

Il processo patologia-normalità ridiviene dunque eminentemente dialettico, come quello che intrattiene il nostro dialogo con il Mondo. Un percorso di consapevolezza che, curando il proprio patologico, “ridispiega” la vera normalità: un equilibrio, che comprende, addirittura, l’inevitabile (anatema!) scacco finale della morte e non quell’enorme ritratto di Dorian Gray che è oggi la nostra civiltà.

E dunque, in conclusione, la supposta oggettività di quella medicina sottoposta agli imperativi biopolitici, che non a caso Illich definiva biocrazia, è in gran parte una falsificazione. La medicina delinea così la dinamica dei processi, dei morbi, ma rinuncia ad abitarli: questo è il ruolo della politica, per recuperare un punto di vista altro non solo nella cura del corpo, ma nel rilanciare le pratiche di una unità di intenti tra umanità e Mondo.