Gianni Cuperlo, trovata l’intesa sull’Imu, per Letta il governo ora ‘è senza scadenza’. Molti nel suo partito, il Pd, invece continuano a indicare la primavera come il momento giusto per andare al voto. È così?

In un contesto ordinario la scadenza di un governo coincide con la fine della legislatura, ma noi non viviamo in un contesto ordinario. Questa è una maggioranza eccezionale e di scopo. Anzi, di scopi ne ha due. Aggredire l’emergenza economica e mettere al riparo la nostra democrazia da nuove involuzioni che si evitano prima di tutto con una nuova legge elettorale e con alcune migliorie essenziali del nostro ordinamento istituzionale, quindi lasciando perdere suggestioni presidenzialiste. Per questi obiettivi Letta stesso ha parlato di 18 mesi, comprensivi del semestre italiano di presidenza dell’Ue, dopo di che logica e interesse nazionale chiedono di rispettare i patti e riconsegnare la parola agli elettori.

Come valuta l’accordo sull’Imu?

È stato un compromesso figlio di quella eccezionalità che ho appena ricordato. La destra brinda. Ma il governo ha salvaguardato un’altra quota di esodati e garantito un finanziamento, anche se ancora insufficiente, della cassa integrazione in deroga. Un osservatore neutro commenterebbe che ciascuno tira la coperta a sé. Ma se stiamo al merito, è evidente che un governo senza la destra non avrebbe tolto l’Imu anche a chi ha tutti i requisiti per pagare un’imposta che nel resto d’Europa non è un’angheria dello sceriffo di Nottingham ma figlia di un banale principio di equità e progressività nella tassazione sul patrimonio. Adesso è fondamentale che il Pd si presenti con una propria ‘agenda’ che metta al centro tre snodi: lotta alla povertà, creazione di lavoro, sostegno con ammortizzatori e non solo a chi è caduto a terra.

Cosa pensa delle tattiche di Berlusconi per rinviare il voto sulla sua decadenza dal Senato? È d’accordo con la proposta Violante?

Credo si debba votare sì alla decadenza. Nessuno contesta le garanzie della difesa. La giunta del Senato esaminerà gli atti, ascolterà, discuterà e si esprimerà. Ma stiamo alla sostanza. La destra, o una sua larga parte, semplicemente respinge una condanna definitiva liquidandola come prova inconfutabile di quella persecuzione giudiziaria che denuncia da anni. Loro chiedono una soluzione politica rinominata ‘agibilità’ motivandola col ruolo pubblico di Berlusconi e col suo consenso elettorale. Ma è questa logica a essere inaccettabile. L’idea che se prendi milioni di voti sei per ciò stesso sciolto da ogni vincolo di legge. In democrazia non funziona così. Il punto non è solo che la legge dev’essere uguale per tutti, affermazione sacrosanta quanto scontata. Il tema vero è che su questo passaggio si gioca una intera concezione della democrazia. Se loro si ostinano a dire che la fonte del potere è il popolo e solo al popolo bisogna rendere conto perché unicamente lì vive la sovranità, l’effetto è di riporre in naftalina lo Stato di diritto. Quella che si afferma è una logica illiberale e anti-costituzionale. Ecco perché non possiamo né dobbiamo arretrare di un millimetro: non è una questione di tattica e non è la via per liberarci di un avversario politico. È un principio e come tale non lo si può interpretare secondo convenienza. Questo la destra lo deve capire. E comunque deve sapere che su questa frontiera del diritto noi non cederemo mai.

Ora che il governo sembra al sicuro, il suo partito stabilirà la data del congresso. L’area dell’ex segretario non ha ancora un candidato. Civati ha parlato persino di un ‘candidato fantasma’. È così? Si aspetta un altro sfidante? O – per chiarire meglio il senso di questa domanda – l’area che ha diretto il partito stenta oggi a trovare un nuovo interprete: perché?

Forse non sono io il primo destinatario di questa domanda. Posso solo dire come immagino il nostro congresso. Mi piacerebbe fosse un momento di libertà per ciascuno. Libertà di pensiero in primo luogo. Vorrei un dibattito segnato dal primato dei diversi impianti culturali, con piattaforme espressione non solo di una leadership ma di una visione del mondo e della politica dopo la destra. E però questo lo fai se al centro di tutto precipita la natura del progetto, la sua identità, l’immagine che si ha del nuovo centrosinistra che dobbiamo costruire dopo la sconfitta di febbraio e l’implosione di quella coalizione. Da parte mia non è solo una mozione degli affetti, ma una sfida su principi e contenuti. Le note che ho scritto e che sto discutendo sera dopo sera in tante feste sono frutto di questa volontà. Non so cosa faranno le diverse aree e componenti, però coltivo l’idea che in tante e tanti possano misurarsi davvero col merito della proposta, e poi scegliere di andare dove li portano la ragione e il sentimento.

Stefano Fassina, oggi viceministro, apprezzando il suo documento dice però che manca ancora un passaggio politico, il dialogo con culture non provenienti dalla sinistra, per esempio quella della dottrina sociale della Chiesa. È così?

È un’opinione e con Stefano mi piacerebbe discuterne a fondo, come ci è capitato di fare tante volte in questi anni. Io penso che il Pd sia, o debba essere, un soggetto che non fonda se stesso sulla riverniciatura di vecchie pareti ma che si fa carico del pensiero critico maturato in questi lunghi anni di crisi. Lì c’è qualcosa di vitale, nel contributo del cattolicesimo democratico, di una sinistra europea che in mezzo a mille tribolazioni sta costruendo la sua rotta, e poi movimenti e forze che si affacciano ora sulla scena e che sono figlie di questa stagione. La mia opinione è che l’opera di costruzione del nuovo partito si sia arenata, oltre che su limiti soggettivi, sulla difficoltà a pensare una cultura politica per il Pd non come l’addizione di singoli fattori sino a ieri divisi tra appartenenze diverse, ma come la ricerca – certo anche faticosa – di una nuova identità condivisa. Ma questo traguardo lo si taglia a due condizioni. Se non hai paura di un confronto di verità al tuo interno, anche aggredendo temi all’apparenza ostici, e se coltivi quel coraggio persino visionario che ti spinge a guardare oltre le compatibilità. Pensi ai primi segnali formidabili di questo pontificato, a cosa possono significare quelle parole sferzanti sulla “globalizzazione dell’indifferenza” pronunciate a Lampedusa. Ecco, se crediamo nel Pd – se non lo consideriamo una mera operazione di vertice ma il nucleo di un’altra stagione possibile – allora più che il dialogo tra culture dovremmo capire quale sia lo spazio di una cultura altra capace di farci dialogare con milioni di persone fuori da noi.

Questo potrebbe portare a un allargamento del consenso intorno alla sua mozione?

Me lo auguro. Ed è la ragione per cui ho scritto solo degli appunti, delle note, senza reticenze ma anche rinviando a più avanti la stesura di una piattaforma vera e propria che spero possa essere frutto di una ricerca condivisa da altri, indipendentemente dalla loro ‘collocazione’ di ieri. Se il nostro congresso ha un senso è aprire una via che ci porti oltre i limiti di questi anni. E per fare questo non devi erigere paratie, bisogna allargare il campo. In fondo a sostenere che “meno si è meglio si fa” di solito sono quelli che nelle proprie idee hanno scarsa fiducia.

Cosa risponde a chi dice della sua candidatura che è troppo ‘targata a sinistra’ e rischia di riportare il partito, per tagliarla grossa, alle divisioni fra ex Pci e ex Ppi? E di rinchiudere l’area della sinistra, quella che si autonomina così, in un recinto troppo stretto?

In parte una risposta l’ho già data ma potrei rovesciare lo schema e chiedere io: come si può immaginare il Pd da qui ai prossimi anni senza che quell’organismo collettivo sia attraversato, nella sua costituzione e nella sua identità, dai valori e dalle ambizioni di una sinistra ripensata e ricollocata pienamente nella storia di questo paese? Davvero qualcuno che in questo progetto ha creduto può pensare che la sinistra, assumendo nel termine la complessità delle sue radici e della sua prospettiva, possa finire ai margini o non contare più? E a quel punto sarebbe in campo una forza più solida, popolare, plurale nelle sue ispirazioni? O piuttosto non avremmo compromesso il progetto che più di altri si è posto il tema di condurre l’Italia dove da tempo dovrebbe stare, sulla frontiera avanzata della modernità e dell’Europa? Io, come altri, non guardo alle origini. Mi trovo in sintonia con persone che hanno militato una vita in partiti diverso dal mio e mi capita di dissentire profondamente con chi nel Pci ha coltivato una intera biografia. Insomma, non penso a un Pd più piccolo, più ortodosso e fagocitato da una sinistra ripiegata sul passato. Penso a un Pd aperto, curioso e consapevole che intorno a noi molto, quasi tutto, è cambiato e cambierà ancora.

Cosa pensa della ‘transumanza’ di molti dirigenti e amministratori Pd verso Renzi?

Non giudico, ci mancherebbe. E ho rispetto verso le posizioni di tutti. Spero solo siano sempre scelte indotte dalla convinzione.

Renzi è considerato un grande comunicatore. Lei appare, in qualche misura all’opposto, un dirigente e un intellettuale propenso all’analisi e poco indulgente verso i personalismi e i diktat della comunicazione. È una scelta politico-culturale. Ce la spiega? Pensa che sia efficace per convincere i militanti e gli elettori del Pd a votarla?

Sull’efficacia non saprei ma continuo a pensare che alle spalle abbiamo un deficit di elaborazione e conoscenza. Per troppo tempo abbiamo schiacciato la nostra agenda su un presente che a volte è finito col ricattare le nostre stesse scelte. Un paio di generazioni si sono formate in questo clima e qualche ricaduta oggi si coglie. Lo stesso terremoto elettorale di febbraio non ha dato vita a una riflessione rigorosa su ciò che era accaduto e sulle sue conseguenze. Ma se sei un partito non puoi vivere sospeso in una bolla perenne. C’è il momento dell’azione e di dev’essere anche lo spazio per capire dove sei, cosa si agita fuori da te e dai tuoi confini, come cambiano l’economia, le culture, le attese dei singoli. Devi saper dire, ma devi anche poter pensare. E tra le due stanze a me pare convenga tenere aperta la porta di collegamento.

Il suo documento è un’analisi critica molto forte degli errori della sinistra degli ultimi 25 anni. Ma in questa analisi non indica i passaggi emblematici fatti, e sbagliati, dal Pd e dai suoi dirigenti. Ce ne indica due che ci facciano capire, per titoli, quale crede siano stati gli errori più gravi compiuti?

Avere pensato che il conflitto potesse divenire un ostacolo sulla via di una democrazia più solida quando è vero esattamente l’opposto, e cioè la democrazia depurata dal conflitto si svuota di sostanza. Non aver compreso che la sfida per i diritti umani, universali e indivisibili, ha mutato radicalmente natura e si configura oggi come una leva essenziale di ogni processo di evoluzione e sviluppo dell’economia, della cittadinanza e della democrazia.

Il suo documento delinea un congresso ‘costituente’, i cui fondamentali sono all’opposto delle larghe intese. Come sarà possibile sostenerlo senza mettere in dubbio le larghe intese?

Per ciò che ho detto rispondendo alla prima domanda. Perché le ‘larghe intese’, come le chiama lei, non possono essere il progetto politico di una sinistra ripensata. Perché se vogliamo aggredire le riforme vere e radicali di cui l’Italia bisogna è evidente che le nostre ricette non sono quelle della destra. Perché se al centro mettiamo una lotta senza quartiere alle rendite, consorterie e corporazioni sappiamo che buona parte della reazione verrà dai nostri avversari. Perché se vogliamo redistribuire, assieme a una certa quantità di risorse, una certa quantità di potere a chi oggi non ne ha e non ha voce è chiaro che dovremo costruire le alleanze politiche e sociali coerenti con quel traguardo. Perché se vogliamo raccogliere molto più del consenso che abbiamo adesso dobbiamo dire per chi siamo, quali interessi intendiamo promuovere, quali forze scegliamo di emancipare e rappresentare.