La più incredibile delle reazioni al ritorno di Silvia Romano è quella sull’accoglienza all’aeroporto. La presenza del presidente del consiglio e del ministro degli esteri è stata giudicata da taluni polemisti un eccesso.

Memoria cortissima. Ben altro si è visto nei gloriosi tempi berlusconiani. Anzi. Memorabile una diretta del 1994 di Retequattro, in cui l’allora ministro degli esteri Antonio Martino era trattato come un principe poliglotta, fiore all’occhiello di un’Italia finalmente liberata. I benemeriti sociologi Katz e Dayan, autori del celebre volume «Le grandi cerimonie dei media» (1992), vi avrebbero magari dedicato un capitolo specifico.

Ma simile diatriba è di poco interesse e svanisce di fronte al buco nero vero e proprio appalesatosi su quella che viene chiamata la stampa di destra nei riguardi di una giovane persona scampata, dopo una lunga e feroce prigionia, ai terroristi somali di “al-Shabaab”.

«Se stava bene in Africa, perché è tornata?», così si sbatteva ieri il mostro in prima pagina. Chiariamo. La libertà di informazione, comunque la si pensi, è sacra. Tuttavia, e per decenza ci si è limitati ad una sola frase senza citazioni ulteriori, qui non si tratta di destra o di sinistra (o di centro).

Non siamo al cospetto di legittimi commenti. No. Sgorga evidente e inquietante qualcosa di altro: un odio forte, vorace, bestiale. Anzi. La reiterazione di allusioni e parole offensive sulla scelta religiosa di Silvia-Aisha evoca un sottofondo buio: la cantina terribile di «Psyco».

Cova ed è sempre all’erta, pronta ad emergere come da un vulcano in perenne attività sommersa, una ben precisa idea del mondo: contro le diversità delle quali le religioni altre dal cattolicesimo (quanto è lontano Bergoglio da tutto ciò) sarebbero portatrici insane, contro l’internazionalismo e la solidarietà avverse ad ogni ottuso sovranismo, contro il mondo delle associazioni che rompe gli schemi politici artefatti. E contro le donne.

Un’analisi compiuta si è letta ieri su il manifesto nell’articolo di Giuliana Sgrena, vittima di un agguato e di un rapimento nel 2005 raccontato nella sua drammaticità, con le implicazioni umane e psicologiche che forse sono state vissute anche da Silvia Romano.

Del resto, Susan Dabbous, rapita nel 2013, si inoltra sulle stesse pagine in svariati rivoli della vicenda. Si sa, l’essere maschile, aduso allo scontro e alla guerra, è comunque trattato con maggior rispetto: eroe e contro-eroe. Una donna sfugge alla narrazione epica, potendo se mai aspirare a qualche ruolo di contorno. O, se mai, al racconto leggero e subalterno.

Ecco. Titoli, articoli e articolesse colpiscono anche per questo. Una donna giovane e sola suscita simili reazioni. Perché? Il motivo risiede probabilmente in un grumo sottoculturale, che riappare nei momenti in cui l’humus destrorso sembra diffuso e forte. Tanto da rendere meno impervio il ricorso alla cattiveria cinica e alla volgarità senza nemmeno l’avanspettacolo.

Naturalmente, in rete e sui social si è scatenato il peggio. Ogni volta è così. Là dentro i vili e i bulli si sentono protetti, mai colpevoli. Si chiama hate speech e, finalmente, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni si sta muovendo. insieme alla Federazione della stampa. Il degrado è francamente intollerabile.

Le forze dell’ordine hanno deciso di tutelare, giustamente, Silvia Romano e la procura della repubblica ha aperto un’inchiesta. Non c’è un rapporto di causa ed effetto tra l’informazione e gli attacchi delinquenziali. Esiste, però, un contesto che mette paura.