Una donna mortalmente malata alla ricerca di un misterioso guaritore messicano che potrebbe salvarla. Un bambino abbandonato a se stesso che crea un mondo quasi fantastico per sopravvivere. The Passage e Low Tide, di Roberto Minervini, erano i primi due film di una trilogia ambientata dal regista marchigiano in una zona rurale poverissima dell’East Texas, entrambi ispirati da e girati con esponenti della comunità locale, personaggi che si reincontrano nelle diverse storie. Il terzo capitolo, qui a Cannes, inserito nel programma fuori concorso, è Stop the Pounding Heart.

Il cuore in tumulto del bellissimo titolo si nasconde dietro al riserbo da quadro fiammingo di Sara Carlson, bionda adolescente in una famiglia di allevatori di capre molto religiosi che educano i dodici figli a partire dai precetti della Bibbia. Il pretesto della storia (perché Minervini costruisce i film a partire dai suoi protagonisti, dando loro lievissime indicazione di «trama» e/o circostanze, che poi lascia sviluppare liberamente) è l’incontro tra Sara e Colby Trichell, un giovane cowboy che cavalca tori nei rodei locali.
I due si guardano con curiosità, timidezza, persino un po’ di diffidenza.

Che sia in groppa a un toro vero, o a una macchina che ne simula i movimenti, scuotendo all’impazzata il suo corpo esilissimo, il personaggio di Colby ha una dimensione fisica che lo rende più accessibile, aperto. Ha una dolcezza palpabile, e quasi malinconica. Sara, che studia il ragazzo come per cercare di scoprire se stessa, è molto più inespugnabile, dibattuta, fatta di spigoli, oltre che il soggetto più difficile a cui l’occhio della cinepresa di Minervini (ostinatamente in 35mm, anche se il corpo della macchina magari arriva da un posto e gli obbiettivi da un’altra parte) si è mai avvicinato. La vediamo qualche volta con Colby, nei boschi con le sorelle o sola. Impegnata nelle attività quotidiane della fattoria – mettere su una recinzione con suo padre, mungere le capre, preparare il formaggio, portarlo a un mercato locale dove lo venderanno. La sua è una ricerca continua, che si legge nello sguardo, in piccoli irrigidimenti dei movimenti.. Quando guarda «dall’altra parte». È con la madre che affronta la conversazioni più lunghe, quasi delle dissertazioni (i Carlson hanno scelto di non mandare i figli a scuola ma di educarli a casa –cosa del tutto legale e nemmeno troppo rara negli Stati Uniti), che spesso riguardano la religione e il ruolo della donna in una famiglia.

Dei tre film texani di Minervini, incentrati su persone che ormai conosce da anni, e di cui si è conquistato la fiducia, Stop the Pounding Heart è anche quello che più mette in scena certi temi sociopolitici che, trattandosi di America, rischiano spesso di trasformarsi in cliché.

Sara e la sua famiglia hanno un rapporto regolare, quotidiano con le armi –in una scena è lo stesso padre che le mette in mano un fucile per insegnarle come usarlo. E, mentre è chiaro che entrambi i signori Carlson hanno il background di persone che hanno avuto accesso a un’educazione da scuola superiore, la loro interpretazione della Bibbia e delle gerarchie nelle dinamiche famigliari o tra sessi è rigidissima – totalmente arcaica.

Come nei suoi altri due film, Minervini sfugge al pericolo (per molti una tentazione irresistibile) di presentarci l’ennesimo quadro pittoresco/trash di un’America rurale, povera, ignorante e violenta. La sua empatia e l’eleganza visiva delle sue immagini (visto che si parla di Texas, pensare e un Malick senza la magniloquenza e luce da spot pubblicitario) sono istintive. Ma ogni sua inquadratura è scelta, studiata, secondo una visione (umana) generosa, nitida e complessa.

Coprodotto da Usa, Belgio e Italia, girato negli States, montato in Europa (Marie-Helene Dozo, abituale collaboratrice dei Dardenne), la correzione del colore fatta in Messico, quello di Minervini è un cinema apolide per natura ma completamente estraneo all’internazionalizzazione industriale del cinema indipendente. Una rarità, qui e nella maggior parte dei programmi da festival.