Nel luglio del 2011, in piena crisi economica greca, i ministri della finanza della zona euro si riunirono a Bruxelles per varare un piano di salvataggio che «ammorbidisse» le condizioni del Fondo Salva Stati (Efsf). In quell’occasione, l’allora governo di centrodestra della Finlandia chiese alla Grecia garanzie in beni dello Stato, osando persino immaginare un’ipoteca sul Partenone, monumento simbolo della civiltà ellenica e, non secondariamente, dell’Europa.

UNA PROPOSTA SIMILE è stata avanzata lo scorso 28 marzo dal senatore Luigi Zanda (Pd), il quale – intervistato dal quotidiano La Repubblica a proposito degli scenari post pandemia – ha affermato che, per evitare un’esplosione del debito pubblico dovuta ai prestiti che l’Italia sarà costretta a contrarre, si potrebbe mettere in gioco il patrimonio immobiliare di proprietà dello Stato.

Malgrado la precisazione di Zanda riguardo alla tipologia di edifici da dare in pegno ovvero gli stabili che ospitano uffici, sedi delle grandi istituzioni, ministeri, teatri e musei, il progetto appare ugualmente azzardato visto che, in caso di default del Paese, i privati potrebbero acquisire diritti inerenti allo sfruttamento di tali beni.

Per la medesima ragione, desta perplessità l’appello lanciato a fine marzo da Pierluigi Battista sulle pagine del Corriere della Sera. Con l’obiettivo di «dare ossigeno» al patrimonio culturale e in aggiunta a defiscalizzazioni, misure di assistenza e di finanziamento pubblico, il giornalista auspica l’istituzione di un Fondo nazionale per la Cultura.

COME SOTTOLINEA però sulle stesse pagine del Corriere il sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma Carlo Fuortes, il quale – assieme al Fai, a Federculture e a diverse Fondazioni – ha prontamente sostenuto l’appello, il carattere no profit del settore culturale non riuscirebbe a reggere il sistema creditizio. Da qui la controproposta, rivolta a istituzioni pubbliche e private, di emettere Obbligazioni Culturali, tramite il cui acquisto la collettività potrebbe contribuire al Fondo.

Sulla vendita di «Culturabond» interviene il collettivo Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali. In una nota diffusa ieri tramite i suoi canali web, l’associazione nata nel 2015 applica i meccanismi finanziari propri della Borsa a tre possibili scenari della «ripartenza» del settore culturale, dimostrando – con l’aiuto di esperti in economia – che l’ipotetico Fondo non porterebbe alcun vantaggio allo Stato mentre consentirebbe a grossi investitori nazionali o internazionali di speculare sul nostro patrimonio storico-artistico.

D’altra parte, abbiamo già potuto constatare nell’ambito dell’Art Bonus che mecenati del calibro di Della Valle e Fendi – impegnati, rispettivamente, nei restauri del Colosseo e delle Fontane monumentali di Roma – non si siano accontentati delle agevolazioni sul credito d’imposta ma abbiano in più occasioni trasformato monumenti pubblici in location per eventi esclusivi, sottraendoli di fatto alla fruizione pubblica. A questi atti, che vanno a detrimento della società civile, si deve aggiungere un abuso del marketing legato alle azioni di mecenatismo (si veda il caso del logo del Colosseo dato in concessione a Della Valle per quindici anni).

NON VA INFINE dimenticato che in un paese dove l’emergenza sanitaria ha decretato da subito la chiusura di musei e siti archeologici, facilitando lo smart working per i funzionari del Mibact, è nel contempo emersa la deplorevole condizione degli archeologi che lavorano a partita Iva, costretti – nonostante l’assenza di adeguati dispositivi di protezione individuale – ad assicurare la sorveglianza dei cantieri di pubblica utilità.

In tale contesto, ci si chiede se non si debba lottare fin da ora per una riforma strutturale dell’intero comparto, prima che la privatizzazione dei beni culturali, d’altronde già caldeggiata e incentivata in differenti forme dal ministro Franceschini, possa definitivamente imporsi in un momento drammatico come l’ingannevole cura di tutti i mali.