Il bravo e tenace ministro Bray, titolare del dicastero dei beni e delle attività culturali e del turismo, non faccia quello che preconizzò un illustre leader di un’altra epoca, vale a dire «un passo avanti e due indietro». Non lo meriterebbe e non sarebbe giusto. Stiamo parlando del valore e dei limiti del decreto-legge dell’agosto 2013, obiettivamente il primo provvedimento di respiro in materia culturale. Dopo anni allucinanti, per la malvagità dei tagli da macelleria al Fondo unico dello spettacolo e all’insieme degli istituti appartenenti alla sfera dei beni immateriali, torna un po’ di luce. Il testo è in discussione proprio in questi giorni al Senato e il tempo per l’approvazione scade nella prima metà di ottobre.
Il «passo avanti» è chiaro, dunque. Si ricomincia a considerare la cultura non come un fardello ingombrante o una mera spesa improduttiva, bensì un investimento fondamentale. Infatti, diventa stabile la misura del «tax credit» a favore del cinema, strumento di incentivazione fiscale dimostratosi utile e significativo tanto che dovrebbe essere esteso all’intero settore audiovisivo. Del resto, il cinema italiano – si è visto a Venezia – non manca di talento, ma ha bisogno di un sostegno reale. Come pure la fiction, dove può essere riaperta la stagione dell’impegno narrativo di qualità. Così, l’avvio di un intervento per dare spazio ai giovani musicisti; lo scongelamento della burocrazia davvero in eccesso nelle iniziative dello spettacolo dal vivo; la prosecuzione della digitalizzazione del patrimonio culturale; il progetto «500 giovani per la cultura». Una luce nelle tenebre in cui il berlusconismo diffuso ha gettato – con tante complicità – il lavoro intellettuale. Scomodo e non omologato, dissonante rispetto all’opera di de-alfabetizzazione indispensabile per il passaggio all’era post-democratica. E sì, perché i filoni autoritari che volteggiano nell’aria richiedono innanzitutto la lesione del diritto a fare ed avere cultura. Una spruzzata controcorrente. Naturalmente, ministro Bray, vada anche Lei su qualche tetto, perché le risorse sono troppo poche e le delusioni diventano cocenti se le promesse non riescono ad essere mantenute.
E i «due passi indietro»? Intanto, il latinorum dell’articolo 1, dedicato alla vicenda di Pompei. Attenzione. Qui c’è l’attenuante di una situazione assurda dove anche un collettivo di premi Nobel probabilmente sbaglierebbe. Tuttavia, che necessità c’è di immettere nell’arcipelago fitto e fragile delle competenze di un ministero che esigerebbe se mai una revisione strutturale (perenne dibattito) la figura del «responsabile unico della realizzazione del Grande Progetto e del programma straordinario»? Ruoli che si sovrappongono alla fine si elidono. I professionisti seri (e ce ne sono) si demotivano, e così via. Il ministero (e il ministro) stesso si svilisce. Forse un ripensamento è utile.
Dove, invece, serve, ben di più di un ritocco il complesso articolato sul risanamento delle fondazioni lirico-sinfoniche. Già il contestatissimo decreto dell’allora ministro Bondi del 2010 aveva inferto colpi bestiali ad un comparto ricco di eccellenze invidiate in tutto il mondo. Ora si arriva alla cura che potrebbe uccidere il malato. Il risanamento è presunto, viste diverse norme simili alle terapie d’urto che risolvono le crisi togliendo di mezzo il problema. Eppoi, pure nell’articolo 11 si affaccia la figura del «commissario straordinario del governo», che si potrebbe sospettare abbia un nome e un cognome. E il ministero? No. L’edificio positivo del decreto si macchia in modo indelebile con una parte che merita una riscrittura totale. O meglio sarebbe cancellare e mettere in cantiere una coraggiosa riforma di un universo che rimane legato ad una legge del 1967. Appunto, il ’68 non è mai arrivato.