Qual è lo stato dei musei, cosa essi sono, come nel tempo che si misura in secoli si sono evoluti, qual è la loro funzione nella società del nostro tempo e quale il loro ruolo nella formazione nostra, dei nostri figli e dei nostri nipoti? Sono tutti o molti degli interrogativi di Evelina Christillin e Christian Greco ne Le memorie del futuro Musei e ricerca (Einaudi «Vele», 2021, pp. 144, € 12,00). La prima è presidente del Museo Egizio di Torino, il secondo ne è il direttore.
Il saggio dipana questa matassa con grande attenzione e sistematicità. Si articola in cinque capitoli: La memoria, La storia, Il presente, Gli oggetti, Il futuro prossimo. Si parte da lontano: dall’antico Egitto, non solo per le vaste necropoli con grandiosi monumenti funebri, ma perché queste testimonianze hanno un ruolo centrale nell’etica religiosa di quella civiltà e devono guidare l’esistenza quotidiana di ciascun uomo già prima della morte verso la vita ultraterrena. Il legame con i defunti è generato dal ricordo e la comunità riafferma la propria identità. Henry Bergson, in Materia e memoria, fu tra i primi a interessarsi con sagacia della cultura del ricordo, e ogni reperto, monumento, archivio, biblioteca, museo è la via per recepire un passato che è sempre volto al futuro.
Nel primo decennio dell’Ottocento i musei del mondo erano circa trenta, poi nel corso del secolo si affermarono come parte essenziale della cultura e della società del tempo. Oggi sono oltre sessantamila e di qualunque natura che non è semplice elencare; con la conquista della realtà virtuale c’è il museo senza opere, questo genera una crisi profonda perché mancano gli «oggetti». Ma in un tempo in cui i musei chiudono a causa del Covid è pure utile il museo virtuale. Ma non bisogna cadere nella trappola del virtuale, che ci fa perdere il contatto fisico con le tracce del passato.
Passiamo alla nascita nell’età moderna dell’istituzione museo: gli autori parlano del recupero del passato non solo in Egitto, ma nell’Antichità classica, nel Medioevo con il cristianesimo, nel Rinascimento con l’Umanesimo. In quest’ultimo contesto culturale Paolo Giovio, intorno al 1540 a Como, riunì una collezione di ritratti a cui diede, impropriamente, il nome erudito di «museo». Nel 1471 papa Sisto IV donò al popolo romano antiche statue pagane in bronzo che erano riposte al Laterano, e fondò così il Museo Capitolino, il primo museo pubblico dell’età moderna. Ad esso seguono gli studioli di Signori, come quello di Cosimo dei Medici e dei suoi eredi, da cui nacquero gli Uffizi di Firenze, inaugurato nel 1581. Ma è ancora un papa, Clemente XII, a ribadire nel 1734 il ruolo assunto dai Musei Capitolini con il suo predecessore Sisto IV circa due secoli e mezzo prima. Nel 1772 il papato aprì le sue collezioni a ogni cittadino dell’Urbe e di tutto il mondo, e nacquero così i Musei Vaticani.
Lo scopo e il pubblico sono vettori essenziali di ogni museo, la parola museo indica «il tempio delle Muse» e rimanda al Museion di Alessandra d’Egitto, che nulla ha a che fare con quello che nella modernità intendiamo come museo. Alcuni musei in senso proprio ebbero in esordio una funzione prevalentemente privata: è il caso, nel 1683, dell’Ashmolean 1683 di Oxford, proprietà di una università prestigiosa. Non fu invece privato lo splendido Statuario pubblico di Venezia, donazione della famiglia Grimani a metà Cinquecento. Circa un secolo dopo l’Ashmolean, nel 1753, nacque il British Museum di Londra. Nel corso del Settecento, con l’età dei Lumi e la rivoluzione francese, si apre un processo che farà sì che le collezione reali dei sovrani di Ancien Régime, già al Palais du Luxembourg, poi al Palais du Louvre, si aprano al pubblico: succede nel 1793. Ribattezzato Musée Napoléon, il Louvre ebbe come primo direttore, e di fatto fondatore, uno straordinario personaggio come Dominique Vivant Denon, che dall’Egitto aveva portato in Francia, al seguito delle campagne napoleoniche, immensi tesori, e organizzò le collezioni secondo metodi che possiamo dire «moderni», in modo che gli oggetti fossero esposti cronologicamente e per ambiti geografici comprensibili al pubblico a cui erano destinati.
Questa la specifica funzione sociale e culturale di ogni museo. Christillin e Greco insistono sulla necessità di riconnettere gli oggetti alla società, farne comprendere la valenza ponendo con forza al centro l’attività di ricerca. È questa che consente di fare del museo una memoria vivente, un teatro del mondo, dove le diverse visioni del passato incontrano il futuro. Come si diceva, l’Ottocento fu secolo propizio per i musei: nel 1819 si inaugura il Prado a Madrid, nel 1824 la National Gallery a Londra, nel 1830 l’Altes Museum a Berlino e la Glyptothek a Monaco, nel 1852 l’Ermitage a San Pietroburgo. Ma conviene ricordare che al 1824 risale anche la fondazione del Museo Egizio di Torino.
Gli autori del libro affrontano anche il tema assai delicato della restituzione di reperti trafugati dai grandi paesi coloniali: Francia, Gran Bretagna, Spagna, Germania, ma pure da quelli piccoli come l’Italia. Il presidente Macron ha dato il buon esempio decidendo di restituire i reperti dell’Africa subsahariana: fa parte di una deontologia che dovrebbero rispettare tutti i paesi e i musei del mondo. L’Italia, che visse quello che Gaetano Salvemini chiamò icasticamente «l’imperialismo degli straccioni», ha reso ad Albania, Libia ed Etiopia molte sculture che provenivano da questi paesi. Fa bene però l’Humboldt Forum di Berlino nel sostenere l’eccezionale unitarietà delle sue collezioni etnologiche. Su questo terreno, che è anche politico e diplomatico, non ha molto senso la richiesta della Grecia di riavere dal British Museum i marmi del Partenone, pur giunti lì dopo un acquisto fantomatico di Lord Elgin, che li ottenne dall’autorità ottomana. E l’Italia dovrebbe rendere gli obelischi egizi disseminati per Roma dal tempo dell’impero romano? Sarebbe un’assurda girandola, perché ogni città, ogni museo possiede reperti provenienti per una ragione o per l’altra da altri paesi.
La seconda parte del volume è dedicata a scandagliare la culturale materiale, la biografia degli oggetti e il loro aspetto cognitivo cioè la ricerca. Perché è la nostra conoscenza del passato che va rimotivata, per mostrare la sua funzione innovativa mediante «la sua più profonda e raffinata forma di ascolto, la ricerca». Vien da pensare che queste pagine possono considerarsi un’addenda preziosa a quel capo d’opera che è il saggio di Adriano Prosperi Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi 2021.