All’inizio del 1977 Bruno Restuccia è uno «scapestrato ventenne» che da qualche anno anima cineclub come il Politecnico e il Filmstudio. Quel giorno ha una riunione dal nuovo assessore alla Cultura, Renato Nicolini, nominato l’anno prima dal sindaco Argan. A un certo punto l’assessore dice «venite con me». «Ci portò in uno stanzone pieno di persone paludate», ricorda Restuccia, «col cravattone e gli orologi d’oro, i responsabili dell’Agis». L’estate seguente vorrebbe l’assessore che i cinema restassero aperti. Ma quelli «con un’aria tra il ricattatorio e l’arrogante gli dissero che c’era bisogno di un minimo di biglietti per sala già assicurato. Lui si irritò ma non disse niente, si voltò e mi disse a voce bassa “ma secondo te riusciamo a organizzare quest’estate qualcosa, proiezioni, rassegne, per non dargliela vinta a questi?” e io: “ma figurati! che problema c’è?”. Non avevo la più pallida idea di cosa avremmo fatto. E allora disse: “la riunione è chiusa, grazie”. Si alzò e se ne andò dalla stanza. E così è iniziata l’Estate romana». L’estate seguente, infatti, va in scena la prima rassegna di cinema all’aperto che prende il nome dal monumento occupato, la Basilica di Massenzio (e lo manterrà anche quando migrerà dal Colosseo all’EUR passando per Circo Massimo).
Verrebbe da commentare con un film che non so quanto piacesse, a Nicolini, Amici miei: «che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione». Tutti i testimoni interpellati da Federica Fava, nel libro tratto dalla sua tesi in Architettura che esce da Quodlibet quale primo, prezioso contributo storico sugli «anni Nicolini» (Estate romana Tempi e pratiche della città effimera, pp. 188, € 18,00), confermano come la loro prima novità fosse l’abbattimento delle procedure burocratiche, l’agire prima di calcolare le conseguenze, il bruciare nel momento dell’adesso (non è un caso che vi fosse anche Benjamin fra gli ispiratori, fin dal titolo Parco centrale dato all’Estate Romana par excellence, quella del ’79). Invece di far calare dall’alto faraonici dirigismi, Nicolini capisce che deve far leva su quanto nella città già fermenta, dal basso: soffiare su quelle scintille per far divampare l’incendio. Per esempio con le «cantine», i piccoli teatri underground che stavano rivoluzionando la scena, non solo romana (a partire dal Beat 72 di Ulisse Benedetti e del compianto Simone Carella: che insieme a Franco Cordelli, nel fatidico ’79, organizzeranno il clamoroso festival dei Poeti di Castelporziano). Quanto è venuto dopo – dice Carella in una delle belle interviste della seconda parte del libro –, istituzionalizzando e burocratizzando, ha fatto «spegnere ogni tipo di febbre».
Fra i suoi pregi il libro di Federica Fava ha quello di recuperare interventi, da allora, mai più ripresi. Nicolini per esempio, a un intervistatore dell’Unità che (come spesso avveniva) nell’83 lo stuzzica sul decentramento, risponde che lo si deve fare, sì, ma «non perché il cuore di Roma è sacro e non va toccato con l’effimero, al contrario per stabilire un nuovo equilibrio tra centro e periferia». In due battute si delinea chiara l’incompatibilità fra la politica culturale di Nicolini e quella che la emenderà dopo la sua fine, tre anni dopo. Alla dicotomia rigida fra «decentramento» (inteso come costruzione di cattedrali nel deserto) e centralissimi poli gestionali, perfette fabbriche di clientele (la Casa del Cinema, la Casa del Jazz e via addomesticando, casalinghizzando), alla contrapposizione fra centro-Museo e periferia-Deserto delle amministrazioni Rutelli e Veltroni, Nicolini aveva tentato di contrapporre un principio-metamorfosi, quella che Franco Purini definisce «contaminazione urbana». La vera dialettica, dice con lucidità Carella, non era fra effimero e durata: a contare era soprattutto «un’idea di trasformazione». La spregiudicata spettacolarizzazione del Centro (gli schermi giganti di Massenzio) serviva ad attirarvi le masse dei forclusi nelle periferie-dormitorio: dunque a contaminare il primo ma, soprattutto, le seconde. Dice bene Purini, allora, che alla radice situazionista si univa uno «spirito gramsciano».
Ecco, forse una più adeguata messa in luce delle radici, di quella stagione, filosofiche e ideologiche (ma anche teatrali, con un maestro segreto come Giuseppe Bartolucci, artistiche, col precedente di Contemporanea di Achille Bonito Oliva, e letterarie, coi mai citati libri-chiave di Cordelli, Il poeta postumo e Proprietà perduta), avrebbe giovato al libro più della sua troppo lunga parte introduttiva: che al proprio oggetto sovrappone un dibattito, quello sulle architetture a tempo indeterminato e sulla dimensione post-metropolitana, che rispetto all’Estate Romana è assai successivo e, largamente, ne prescinde. Ma del resto costituisce sempre un paradosso, il rapporto di quel tempo col futuro: ogni volta che si riattualizza la stagione dell’Effimero, non si può che tradire quel passato che fu un presente irripetibile proprio perché non voleva avere alcun futuro. Dice Purini del magnifico Teatrino Scientifico da lui progettato insieme a Laura Thermes per l’Estate del ’79, oggi re-enacted al MAXXI, che era una «scatola magica» che funzionava come un «cannocchiale del tempo» (non diversamente avrebbe agito, nella grande festa di capodanno dell’83 organizzata dal Beat 72, il Traforo di Via Nazionale). È guardando attraverso quel cannocchiale che si può far sognare un futuro, forse, a un presente che troppo spesso ignora il passato.