Chi è stato educato a considerare «l’hic et nunc dell’opera d’arte», ossia a meditare la ingente messe di problemi che solleva la questione della sua unicità ed ha conservato il convincimento che (detto con le parole scritte da Walter Benjamin nel 1936) «la sua esistenza unica è irripetibile» e che l’opera si attesta esclusivamente «nel luogo in cui si trova», è oggi costretto a operazioni difficilissime e impervie per assicurarsi quel contatto diretto che consente un rapporto di reciprocità, indispensabile per il realizzarsi di una ‘intesa’, e perché si determini quello speciale e delicato corrispondere che permette, a chi la accosta, una sua altrettanto unica e irripetibile appropriazione dell’opera. Per quanto assumano un rilievo evidente le diverse condizioni che comportano le diverse recezioni allorché si prenda in esame un’opera di musica o un componimento letterario, un’architettura o una scultura o un dipinto, resta tuttavia invariata la questione dell’hic et nunc, del qui e ora dell’effettivo contatto da stabilire. La riflessione di Benjamin (che ancora poteva assumere l’opera d’arte quale primario soggetto nell’impostare il suo ragionamento intorno al concetto di riproducibilità), trascorsi nove decenni, andrebbe forse definitivamente invertita, portando la sua indagine alle conseguenze estreme, e secondo i suoi principi. Non sembri una forzatura, allora, affermare che il soggetto centrale di quest’ordine di pensieri è piuttosto divenuto la riproduzione tecnica come tale, non l’opera d’arte. «Privando l’arte del suo fondamento cultuale, scriveva, l’epoca della sua riproducibilità tecnica estinse anche e per sempre l’apparenza della sua autonomia», una autonomia sostanziale che la riproduzione ha fatto propria. Dal qui e ora all’ovunque e sempre. È la autonomia della riproduzione tecnica dell’opera che, oggi come oggi, la rende opera d’arte, che ne ratifica lo status e le conferisce valore. Non il luogo in cui si trova, ma tutti i luoghi in cui non si trova costituiscono per il fruitore l’ambito del suo incontro con l’opera. Il fruitore, appunto, da intendersi come il predisposto destinatario anonimo, da riconoscere come l’oggetto impersonale di un consumo sempre e ovunque disponibile, non il cultore di una reciprocità irripetibile e solo sua, ma il consumatore omologato di prodotti seriali. È così che la cancellazione della irrepetibilità e unicità dell’opera comporta la cancellazione dell’irrepetibilità e unicità del cultore, di colui che, propriamente, continua la creazione dell’opera nel riformularla entro di sé, la assume come un universo in espansione, la riconduce viva nella interlocuzione, nel giudizio, nel commento. Ma, si sa, Benjamin aveva visto perfettamente questi aspetti della questione: la «sensibilità per ciò che nel mondo è dello stesso genere, scriveva, è cresciuta a un punto tale che essa, mediante la riproduzione, attinge l’uguaglianza di genere anche in ciò che è unico. Così, nell’ambito dell’intuizione si annuncia ciò che nell’ambito della teoria si manifesta come un incremento dell’importanza della statistica. L’adeguazione della realtà alle masse e delle masse alla realtà è un processo di portata illimitata sia per il pensiero sia per l’intuizione». Dal cultore al fruitore. Dal conoscere critico che aumenta la consapevolezza, al consenso passivo che si ripete dilagando in coazioni conformi. Cultore, un termine al quale si fa ricorso raramente. Nel Dizionario dei sinonimi della lingua italiana, Niccolò Tommaseo lo illustra accosto a «coltivatore» che, precisa, ha «bisogno d’una specificazione della cosa coltivata», mentre «cultore è del linguaggio scritto, e viene dal latino, ha molti sensi traslati» che coltivatore non ha, tra gli altri «il coltivar sé stessi», che cade, appunto, al nostro proposito. La coltivazione di sé è una dote essenziale nella formazione dell’artista, determina il senso della sua ricerca e fa la qualità dell’opera sua. Invece è facile riscontrare nella massima parte degli artisti di questi anni l’attitudine che è propria del fruitore che trascura l’elaborazione del cultore. Si ingegnano nella produzione di repliche, di ripetizioni, di rifacimenti. Di riproduzioni tecniche, insomma, sotto la mentita spoglia di opere d’arte pronte per il mercato.