La premessa all’enciclopedica opera che Imma Forino dedica allo spazio domestico per eccellenza (La cucina Storia culturale di un luogo domestico, Einaudi «Saggi», pp. XXX – 488, € 36,00), è la volontà di raccontare questo ambiente riproponendo il modello di pensiero elaborato dal filosofo Tzvetan Todorov in Éloge du quotidien (1993), omaggiato già nell’introduzione al testo: un saggio per istantanee affiancate allo scopo di ricostruire il senso della cucina, e contrapposte alla descrizione tematica, stilistica o formale tradizionalmente adottata dalla critica di settore.
Per questo il volume, ordinato cronologicamente, racconta la cucina occidentale attraverso episodi salienti e invarianti epocali, che delineano il quadro dei paradigmi culturali e progettuali susseguitisi dall’antichità a oggi attingendo anche a discipline lontane dall’architettura degli interni, quali la storia economica e sociale, dell’alimentazione, della letteratura gastronomica, del cinema. Ne emerge un caleidoscopico ritratto di quelle che l’autrice definisce «microstorie»: ciascuna «giustapposta o cucita alle altre, simboleggia il più ampio racconto antropico, in cui siamo emotivamente quanto culturalmente coinvolti».

Industriali, banchieri, bizzarri
La narrazione si apre con un lungo capitolo che ripercorre l’arco temporale compreso tra preistoria e Illuminismo, fino a individuare il diciannovesimo secolo quale punto di svolta per la formazione di modelli e capisaldi della cucina moderna, scissa in due filoni: quella immaginata per industriali, banchieri e bizzarri ma ricchi committenti della nuova borghesia (per i quali gli architetti disegnano interi quartieri domestici destinati alla cottura e conservazione del cibo) e la «cusine de famille», votata alla gastronomia ordinaria tipica del ceto medio e impostata al raggiungimento del comfort nell’esecuzione di gesti quotidiani e ripetitivi.
Al primo gruppo di progetti appartiene, per esempio, quello elaborato da Joseph Paxton – il noto progettista di serre assurto al ruolo di planetaria archistar ante litteram grazie al successo del suo Crystal Palace (1851) – per lo Château di Ferrières (1854-1859), su commissione di James Mayer de Rotschild; al secondo, l’interminabile schiera di ambienti ridotti, nascosti e isolati dal resto della casa che caratterizzano l’espansione edilizia di città come Parigi, con le sue maisons à allée, a fiancheggiare i grands boulevards di Haussmann, o con le habitation à bon marché, in cui compaiono i primi tentativi di standardizzazione con cucine lunghe e strette, dotate di un unico contenitore per le stoviglie seguito da lavandino, fornelli a carbone e di una lunga barra per appendere il pentolame. È la stessa dicotomia rintracciabile tra la cucina alto borghese descritta da Eugéne Viollet-Le-Duc nell’opuscolo Histoire d’une maison (1873) – in cui si propone, per questioni igieniche, un ambiente affacciato sulla corte secondaria condivisa con orti e pollai ma direttamente connessa alla sala da pranzo mediante un passavivande e il desserte, l’ambiente di servizio dedicato all’assemblaggio dei piatti prima del loro ingresso a tavola – e la modesta stanza della famiglia di salumieri di Émile Zola in Le ventre de Paris (1873), che Forino definisce «un’operosa officina».
Immutabile per quasi un secolo, la storia della cucina subisce la successiva spinta al rinnovo del modello occidentale grazie alla fiorente produzione editoriale americana d’inizio Novecento: rigorosamente contenuta alle dimensioni massime di circa venti metri quadrati, dalle candide pareti bianche rivestite in ceramica lavabile, arredata con il minimo indispensabile a garantirne la funzionalità, l’american kitchen diventa il prototipo più in voga anche oltreoceano, grazie al successo di raccolte di modelli planimetrici quali Craftsman Homes di Gustav Stickley (1909) e Bungalow. Their design, construction and furnishing di Henry H. Saylor (1911), o di manuali come A book of distinctive interiors di William A. Vollmer (1912). A esso si affianca il fenomeno tipicamente americano dei kit per l’auto-costruzione di case vendute per corrispondenza, iniziale monopolio dell’azienda Sears, Roebuck & Co. e della Alladin Co., che tracciano il solco per la definitiva standardizzazione e la semi-prefabbricazione della cucina, a cui guarderanno i grandi architetti europei nel disegno della città razionale, immaginata come ripetizione su scala urbana di una cellula-base costituita dall’alloggio ideale cui è affidato anche il rinnovamento della società di derivazione taylorista.
Nell’Europa degli anni venti e trenta, specialmente in Germania e in Austria, prende infatti piede il modello di cucina funzionale proposto per esempio da Benita Otte ed Ernst Gebhardt nel prototipo di casa modello presentato all’esposizione del Bauhaus di Weimar nel 1923, in cui il piano di lavoro è un’ininterrotta superficie sagomata a «L», corredata da credenze ad altezza occhi popolate da barattoli standard per la conservazione degli alimenti, o dalla celeberrima Frankfurter Küche di Margarete Schütte-Lihotzsky (1926-1928), realizzata in serie in più di diecimila esemplari grazie soprattutto alla sua introduzione nelle molteplici Siedlungen di quell’Ernst May impegnato nel garantire un’abitazione salubre e a basso costo alla classe operaia tedesca.

La Frankfurter Küche ed Ernst May
Proprio la cucina di Francoforte contiene in nuce tutte le riflessioni sul tema che verranno sviluppate nel corso dell’intero ventesimo secolo, attraverso altri mirabili esempi e nonostante la forte cesura rappresentata dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale: i Casier Standard di Le Corbusier e Pierre Jeanneret (dal 1924), le case dimostrative di J.J. Oud al Weissenhof di Stoccarda (1927), le sperimentazione proposte ai CIAM (dal 1929), la cucina progettata da Piero Bottoni nella Casa Elettrica di Figini e Pollini (1930), la Bruynzeel Keuken di Piet Zwart (1938) e la Cusine Atelier di Charlotte Perriand (dal 1938), che incarna l’ideale della sua autrice: una «cucina-bar che, totalmente integrata al soggiorno, metteva in comunicazione la padrona di casa con la famiglia e gli amici e stimolava il dialogo e la partecipazione. La donna non era più relegata in fondo a un corridoio, a nord, come una schiava (…). Godeva pienamente dell’armonia dei luoghi. A lei spettava avere il senso dell’ordine come un perfetto barman, e agli ingegneri assicurare perfetta aspirazione degli odori e dei vapori».
Accanto ai grandi esempi del passato e a chiusura del suo saggio, Imma Forino ci propone anche un’interessante finestra aperta sul futuro, in cui un ruolo importante spetta non solo alle innumerevoli innovazioni a cui dobbiamo futuristiche visioni di casalinghe cucine high-tech, ma soprattutto al cambiamento sociologico palesatosi con il nuovo millennio: si analizzano fenomeni come la commistione tra cucina e luogo di lavoro, che sono ormai all’ordine del giorno per via della sempre più frequente erosione dei margini tra vita privata e flexible working. «Nelle cucine domestiche – scrive – il laptop o il tablet trovano posto accanto al piatto del pranzo (…). Sempre più spesso, d’altronde, gli uffici sono progettati come club, richiamando l’idea dell’ambiente associativo che nella società inglese dell’Ottocento offriva possibilità d’incontro e di scambio di opinioni in uno spazio confortevole e protetto dalla turbolenta città industriale».