Potrebbero essere molto vicini alla verità, gli inquirenti, forse hanno già individuato coloro che massacrarono di botte Stefano Cucchi. Sua sorella Ilaria è quasi incredula quando esce, accompagnata dall’avvocato Fabio Anselmo, dall’incontro avuto ieri pomeriggio con il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e con il sostituto Giovanni Musarò, responsabile dell’inchiesta bis aperta, sei anni dopo, sulla morte, rimasta finora senza responsabili, del giovane geometra arrestato per droga dai carabinieri il 15 ottobre 2009 al Parco degli Acquedotti di Roma.

«Sono emozionata, commossa, non pensavo che la procura fosse così avanti nelle indagini. Avrei voglia di gridare al mondo molto di più, ma ho molta fiducia nel procuratore». A Pignatone hanno appena consegnato un altro documento importante: la registrazione della telefonata intercorsa tra il giornalista Duccio Facchini, della rivista di informazione indipendente Altraeconomia, e la tecnica radiologa incaricata dalla Corte d’Assise di esaminare per il processo la colonna vertebrale di Cucchi.

Nell’intervista, la tecnica ausiliaria Beatrice Feragalli, dell’Università di Chieti e Pescara, spiega (vedi il manifesto del 12/9/2015) perché la frattura «recente» sulla terza vertebra lombare di Stefano, riscontrata dalla perizia firmata dal prof. Carlo Masciocchi, presidente della Società italiana di radiologia, e depositata venerdì scorso dalla famiglia, non compare invece nei referti ufficiali attorno ai quali si sono svolti due processi conclusi con l’assoluzione di tutti gli imputati: «La L3 – riferisce Feragalli – non era valutabile nel nostro esame proprio perché era già stato sezionato l’osso, non era intera la vertebra».

«In procura, abbiamo avuto un lungo confronto sulla crisi di questi aspetti medico legali; l’interesse dei pm ricade su di essi e quindi sulla causa della morte di Stefano», riferisce l’avvocato Anselmo che oggi stesso tornerà a piazzale Clodio per consegnare altre immagini radiologiche della L3 e della sacrale S4, le vertebre fratturate, secondo il prof. Masciocchi, «contestualmente» e non molto tempo prima del decesso, «con alta verosimiglianza» a causa di «un trauma compressivo».

Dunque, si torna a indagare a 360 gradi su tutti coloro che contribuirono a insabbiare il pestaggio del ragazzo, allora 31enne. Evento comunque appurato dalla stessa Corte d’Appello che, nelle motivazioni della sentenza con la quale ha assolto, ribaltando il primo grado, sei medici, tre infermieri e tre poliziotti penitenziari, consigliava alla procura di indagare ulteriormente sui militari che ebbero Cucchi sotto tutela.

Ed è proprio grazie alla testimonianza resa spontaneamente da due carabinieri – un uomo e una donna che avrebbero riferito a Pignatone di quanto alcuni loro colleghi si fossero dati da fare per nascondere il pestaggio, o forse i pestaggi, come sostengono i familiari – che sul registro degli indagati è finito, con l’accusa di falsa testimonianza, un maresciallo dell’Arma, ex comandante della stazione Appia da cui partì la volante che eseguì l’arresto. Ma, ragionano i legali della famiglia Cucchi, «se il carabiniere è indagato per falsa testimonianza, non può rimanere solo e ci sarà una catena di false testimonianze che riguarderà tutto il processo».

«La morte di mio fratello doveva essere archiviata come la fine naturale di un povero tossico, una vittima scomoda da seppellire subito. Noi – promette Ilaria Cucchi in un’intervista a Repubblica – dimostreremo che è stato un omicidio».