Stefano Cucchi è stato sicuramente picchiato da qualcuno che lo aveva in custodia per conto dello Stato. E non è morto né di fame e sete, né per un evento inatteso. Sono le uniche certezze che la Prima Corte d’Assise d’Appello mette nero su bianco motivando la sentenza con la quale il 31 ottobre scorso ha assolto tutti i dodici imputati accusati a vario titolo di aver causato il quadro psico-fisico responsabile della morte del trentunenne geometra romano: sei medici e tre infermieri dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, e tre agenti di polizia penitenziaria. Per il resto, la verità non è ancora venuta a galla, in particolare per quanto riguarda «le lesioni subite dal Cucchi che – si legge nelle motivazioni rese pubbliche ieri – debbono essere necessariamente collegate a un’azione di percosse; e comunque da un’azione volontaria, anche una spinta, che abbia provocato la caduta a terra, con impatto sia del coccige che della testa contro una parete o contro il pavimento». Perciò il collegio giudicante presieduto da Mario Lucio D’Andria con Agatella Giuffrida ha rinviato tutti gli atti alla procura romana «perché valuti la possibilità di svolgere ulteriori indagini al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse dagli agenti di polizia penitenziaria giudicati da questa Corte».

Dunque per i giudici che non hanno ritenuto sufficienti nemmeno le prove che in primo grado avevano portato il 5 giugno 2013 alle uniche condanne – cinque dei sei medici per omicidio colposo e una per falso – il giovane romano arrestato per detenzione di stupefacenti («54 dosi medie di hashish e 3-4 di cocaina») verso le 22,30 del 15 ottobre 2009 e morto nelle prime ore del 22 ottobre, nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini, è stato sicuramente picchiato da qualcuno nel range temporale che va dalle 2 del mattino (dopo la perquisizione dei carabinieri nell’abitazione dei suoi genitori) alle 16,30 del 16 ottobre 2009 (quando il medico di Regina Coeli, dove il giovane venne trasferito dopo l’udienza di convalida d’arresto, gli prescrisse radiografie urgenti al cranio e alla regione sacrale e una visita neurologica, riscontrando in quelle zone del corpo lesioni preoccupanti). Ma poiché «il detenuto era costantemente tenuto sotto controllo», e «già prima di arrivare in tribunale Cucchi aveva segni e disturbi che facevano pensare a un fatto traumatico avvenuto nel corso della notte», deduce la Corte che «non può essere definita una astratta congettura l’ipotesi prospettata in primo grado, secondo cui l’azione violenta sarebbe stata commessa dai carabinieri che hanno avuto in custodia Cucchi dopo la perquisizione domiciliare».

«Le motivazioni della sentenza, riguardo agli autori del pestaggio, ripercorre – commenta l’avvocato Alessandro Gamberini, uno dei due legali della famiglia Cucchi – gli stessi errori valutativi del primo grado. Per esempio, non considera determinante la deposizione del detenuto Samura Yahja, il teste gambiano che disse di avere ascoltato ciò che gli appariva un pestaggio mentre si trovava nelle celle di sicurezza del Tribunale di Roma. E non tiene in considerazione il fatto che, se le lesioni fossero state provocate dieci ore prima dell’udienza dal gip, i dolori nell’area lombo-sacrale sarebbero stati visibili anche al giudice. Però, venendo incontro alla nostra tesi, i giudici finalmente dicono che la morte per inanizione (di fame e di sete, ndr) non sta in piedi. Eppure non spiegano qual è il nesso causale con le lesioni che, pur non essendo di per sé letali, hanno comunque innescato il meccanismo letifero che ha prodotto i fenomeni brachicardici e poi condotto alla morte».

Scrive infatti il presidente della Corte, D’Andria: «Le quattro diverse ipotesi avanzate al riguardo, da parte dei periti d’ufficio (morte per sindrome da inanizione), dai consulenti del pubblico ministero (morte per insufficienza cardio-circolatoria acuta per brachicardia), delle parti civili (morte per esiti di vescica neurologica) e degli imputati (morte cardiaca improvvisa), tutti esperti di chiara fama, non hanno fornito una spiegazione esaustiva e convincente del decesso di Stefano Cucchi. Dalla mancanza di certezze, non può che derivare il dubbio sulla sussistenza di un nesso di causalità tra le condotte degli imputati e l’evento». Da cui, l’assoluzione dei medici e degli infermieri, riguardo ai quali la Corte ha valutato che «non è possibile individuare le condotte corrette che gli imputati avrebbero dovuto adottare».

Comunque, Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, si ritiene soddisfatta per il fatto che «la Corte ha accolto il nostro invito a non voltarsi dall’altra parte» rinviando gli atti alla procura. Un «fatto nuovo e importante, una grande vittoria», gioisce il padre, Giovanni Cucchi. Ma Ilaria sente puzza di bruciato: c’è il rischio, dice, che «ulteriori indagini servano solo a dimostrare che i due pm del primo processo hanno fatto tutto benissimo». «Non ci sto – aggiunge – La vita di una persona che viene consegnata alle mani dello Stato in ottima salute e che viene restituita ai suoi famigliari, dopo il crudele gioco della sberla del soldato, morta ed in quelle terribili condizioni, deve valere almeno il riconoscimento e l’ammissione che i due pm hanno sbagliato. Deve almeno valere le scuse dell’ufficio». In realtà, secondo il senatore Pd Luigi Manconi, «in quelle motivazioni, tra le righe, si può leggere qualcosa di ancora più significativo: ovvero che la Procura di Roma ha svolto le indagini in maniera maldestra e inadeguata. È quella stessa Procura che, attraverso un pubblico ministero d’Aula, ha dedicato molto tempo e molte energie a insultare la vita e la memoria di Stefano Cucchi. Mi auguro che ora, finalmente, le nuove indagini siano svolte da pubblici ministeri coscienziosi e competenti».